domenica 31 ottobre 2010

Edera



 Le mani si sono mosse da sé, la maniglia, la spinta sullo stipite, aggrapparsi al bordo ruvido e guardare intorno, un cielo generoso ovunque. Un chiarore febbricitante  si stende sul terrazzo, sale in mezzo alle gambe e rende i movimenti puntuali. Stringersi la maglia intorno al punto vita, lasciare cadere le braccia. Fare un passo, in un freddo che rimpicciolisce. Forzare gli zigomi attorno alle orbite, un tenere molle e tenace, della consistenza di labbra poggiate.
Nemmeno un’ombra qui fuori, nessuna cosa nera. Solo seno e fianchi e edera. Le restanti linee dei corpi sfumano in un inspiro di costole bianche, in una vertigine che dissolve, dalla pianta dei piedi alle narici.
Dimentico.
Nel vuoto sotto, un ricciolo di vento sfoca i bordi, nell’orizzonte di aria caduta. 

venerdì 10 settembre 2010

Laura e il portato karmico


-        
-          Pagherei per avere un motivo per alzarmi presto la mattina. –
Laura sta seduta davanti a me, girata per tre quarti sulla sedia di legno nel buio seminterrato del pub in cui facciamo l’aperitivo. Tiene il braccio sul tavolo, non si è tolta il giubbotto di pelle, e dalla zip aperta sul petto spunta la lingua rossissima dei Rolling Stones. Accarezza lo stelo di un bicchiere di vino rosso, fruttato e fermo, e parla in fretta, la voce bassa e mascolina che esce serrata dalle guance, trattenuta come se ogni parola prima di essere pronunciata dovesse passare un rigido check in mandibolare.
-          Me ne porti un altro? – la cameriera è una ragazza giovane e ben piazzata, coi capelli cortissimi. Si muove netta e scattante, allunga liste e prende ordinazioni piazzandosi a gambe aperte ad un capo dei tavoli. Dà l’idea di non lasciare residui. Di essere sicura di qualcosa.
Laura scuote la testa quasi in continuazione mentre parla, come a dissentire, a sottolineare che lei no, proprio no, non se ne fa una ragione. Quando ascolta invece mi guarda fissa, gli occhi chiarissimi e fermi che fanno capolino da sotto la frangia. Occhi seri.
No, Laura non se ne fa una ragione.
-          Non un motivo qualunque, intendo. Vorrei qualcuno che mi dicesse di alzarmi alle sei di mattina per andare a fare una qualsiasi cosa in cui ci possa mettere la mia dannata anima –
Queste ultime parole sono sottolineate dalla sua mano che si alza, e dandomi le nocche compie un ritmico avanti e indietro mentre con il pollice si torce l’anello di brillantini al medio. L’anello so che era di sua nonna e mi ha sempre ricordato la spilla di Velvet Goldmine. Il gesto è molto rock’n’roll.
Già, perché Laura è la persona più rock’n’roll che conosca. Poche storie, è così. La mia bibbia personale degli anni settanta, quella che si legge i libri di Pamela De Barres in lingua originale  e passa 24 ore al giorno a “suonare nella sua testa”. 
Non ne conosco molte di persone così. Di persone che hanno passione, una passione silenziosa e accorta, quasi devozione. Un sentimento dedito di amore, che rimane puro e dignitoso anche quando è costretto ad abbassare la testa.  Questo sì che è vero amore, penso mentre Laura mi parla della retrospettiva che si sta facendo su David Hemmings, dell’aneddoto sulle preghiere blasfeme di Marlon Brando mentre possiede analmente Maria Schneider. Per ennesime volte mi racconta dell’infanzia difficile di Janis e dei suoi amori lesbo, o di Hendrix che si lancia le pasticche in bocca e strimpella coi denti. Ogni volta il suo distacco è insieme clinico e responsabile, come una buona madre manda il figlio a scuola controvoglia. Tutte queste storie sono sue, le cova in grembo durante nottate insonni davanti all’ennesimo splatter di Fulci o attaccata allo stereo coi Led Zeppelin a manetta. Le cova in grembo e a qualcuno deve pure darle, penso mentre la sua voce cadenzata parla e parla, e - ci sono così poche persone con cui condividere, le poche persone con cui puoi si rivelano poi degli stronzi sotto altri punti di vista - .
  
C’è posto? C’è posto qui, in mezzo ai bordi bui che colano a picco nel nulla, per un amore così?
Scolo l’ultimo sorso della mia Weiss e le sorrido, le sorrido tanto. È solo la prima birra, ma mi sembra già tutto edulcorato, i pensieri perdono dimensione e galleggiano sottili come cartacce. Forse ci stanno davvero togliendo respiro. Forse tra poco proveremo a inspirare e qualcuno ci bloccherà l’espiro, trattenendoci dal dare tutte quelle cose che abbiamo covato dentro nelle notti insonni e nei pomeriggi degli anni novanta. Quando c’era il principe di Bel Air e il gingle del polletto Vallespluga.
Forse davvero stiamo andando verso una concentrazione di diverse proporzioni, in cui una bidimensionalità zuccherosa col sorriso al silicone raggiungerà l’80% e come in un grande ospedale dell’anima ci saranno stanze da chiudere su tutto ciò che abbiamo sempre definito essere vitale, incontrollabile, imprevedibile, amorevole. 

Quello di cui Laura non si fa una ragione ha a che fare con il buio all’orizzonte. Con il redattore del giornale per cui scrive che si dimentica di avvisarla quando saltano di pubblicarle un pezzo, che le viene pagato 40 euro. Non si fa una ragione dei curriculum inviati alle redazioni e dei posti presi da persone che – cristo santo, non sa nemmeno chi è Alex DeLarge.

Dopo l’aperitivo ci dirigiamo vero un sushi bar. Mentre camminiamo nel tepore ocra di una tiepida serata settembrina, sono consapevole di essere la prima a fare proselitismo e la prima a non trovare niente di meglio da fare, in un momento in cui l’Italia sta andando a rotoli, che andare a mangiare sushi. Dentro il locale ci conoscono, il cameriere cine- giapponese (o forse è un calabrese che si è allungato gli occhi con le mollette, il dubbio fa parte del folklore) ci guida verso il solito tavolo accogliendoci con le solite molte elle.
Due sushi b e sakè. Un nigiri le scappa dalle bacchette e le si va a infilare dritto nel mezzo della folta chioma castana lasciata cadere sulle spalle. Scoppiamo a ridere.
Laura si mette a scimmiottare un balletto da seduta, piegando i gomiti per ondeggiare in su le mani.
-          Potrei sostituire Tim Curry in un remake giappo – trash del Rocky Horror Picture Show –
-          Non so se la variante giapponese potrebbe superare in trashaggine l’originale! –

Caffè e grappa di rose, la serata finisce in centro città.
Seduti accanto a noi ai tavolini del bar all’aperto c’è una mandria di diciott’enni. Stanno in silenzio e sorseggiano cocktail, i capelli stirati davanti al viso, alcuni si tengono per mano, altri si guardano intorno e se si incrociano lo sguardo dicono – cazzo vuoi?! – ghignando un attimo per poi tornare alle espressioni da tonni.
Quando mi inalbero nel mezzo di un discorso di politica si girano e mi guardano come se avessi delle corna verdi fosforescenti. Per un secondo vengo scossa da un fremito di horror vacui che mi incita a zittirmi, poi alzo la voce e continuo a parlare. Che sentano, che sentano bene anche.
-          Se non condividono, almeno imparano no? – dico a Laura che continua a scuotere la testa.

- Quest’anello era di mia nonna. – fa toccandosi il dito a occhi bassi in un momento di silenzio.  
- Lo so -
- Ti ho mai raccontato la sua storia? –
- Mm, non mi sembra – accavallo le gambe e do un sorso di birra. Il boccale mi è particolarmente vicino in questo momento di solitudine in cui tutta la mia figura sembra bucare l’atmosfera patinata del locale. Onesta, vecchia birra. Tu sola t’intoni con i mie stivali scamosciati, il giubbotto di jeans e lo snake comprato alle bancarelle.
- Mia nonna era alcolizzata, è vissuta non si sa come fino a novantatrè anni e fino all’ultimo giorno della sua vita ha bevuto. L’hanno trovata nel letto con una bottiglia di whisky nascosta sotto le lenzuola. - 
-  Mio dio –
- Già. A volte penso che in qualche modo io debba pagare per delle cazzate che qualcuno ha fatto prima di me –
- Spiegati meglio –
-  Nel senso, prendi mia nonna. Ha fatto quello che ha voluto tutta la vita, senza pagarne le conseguenze. Senza affrontare le cose di petto, senza esserne consapevole –
- Sì. Anche mio nonno era alcolizzato. Ma forse il regresso delle cause è davvero infinito … -
- Prendi i nostri genitori, o la generazione appena successiva. Si sono mangiati tutto. Potevano avere la vita che volevano, beh magari non completamente, ma una certa idea di futuro ce l’avevano a disposizione –
Laura si scuote la testa, questa volta per portarsi i capelli dietro la schiena. Mangia una meringa che il cameriere ha portato insieme al suo White Russian, il suo cocktail preferito, come ne “Il Grande Leboswski”.
-          Un altro giro? – annuisco. – Voglio semplicemente dire che la mia punizione potrebbe anche solo essere nata in quest’epoca. Qui e ora. E con dei genitori così –
-          Così come? –
-          Così che ti fanno sentire incastrata. Che vogliono darti amore e possibilità ma che poi non si fidano delle scelte che fai. Che non riescono a vedere il tuo rapporto con il mondo - 
Secondo l’astrologia karmica, le colpe di cui si è macchiato il nostro spirito nelle vite passate, tornano a riproporsi in quella attuale. Veniamo addirittura attratti, per nascere, da una coppia di genitori che può darci la possibilità di compiere il nostro destino e sbrogliare il nostro nodo karmico.
Non solo, ma anche i reati morali, etici e spirituali, che sono stati commessi dai nostri avi possono influire sulla nostra vita attuale, procurandoci dei dolori e degli avvenimenti sfortunati a cui non siamo preparati e che non abbiamo messo in conto.


Quando l’ho guardata nuovamente, il viso di Laura era diventato cadaverico. Penso di aver bevuto un po’ troppo, mi ha detto alzandosi e andando barcollando a pagare il conto.
Le ho fatto fare una passeggiata per farla smaltire. Poi l’ho caricata in macchina e sono partita. Dopo nemmeno un chilometro la sua testolina liscia si sporgeva dal finestrino.
Ho fermato la macchina e l’ho fatta scendere.
-          Aspetto che prima ti lego i capelli – le ho detto passandole una mano sotto la vita e l’altra sulla fronte – andrà tutto bene – ho aggiunto.
-          Sì, dopo andrà sicuramente meglio – mi ha detto lei prima di chinarsi sul ciglio della strada. 

venerdì 27 agosto 2010

L'effetto g e tu non ci sei

-          Certo che va in alto –

 Sono reduce da ben cinque minuti di scombussolamenti viscerali causati dalla Nave Pirata - o forse è una Gondola Pirata - sulla quale la felice coppia di padre con figlio seduta davanti a me ha rischiato in più occasioni di vedere lo yogurt bianco che ho mangiato a colazione e la sfoglia al mirtillo che ho mangiato come seconda colazione ben colorati e lucidi di bile proprio lì, sulla poppa – o forse era la prua? – della nave/gondola. Con tutti i pezzi di mirtillo congelati e scongelati nella sfoglia riproposti nel loro antico splendore violaceo dopo un avanti e indietro particolarmente feroce.
Nei parchi divertimento per famiglie sembra sempre di allenarsi a vivere, non di vivere sul serio.
La coppia canonica padre–figlio, il primo col capello brizzolato, la ciccia attorno alla pancia che straborda schiacciata dall’asta metallica di sicurezza e il marsupio blu scuro marca Eni lasciato cadere mollemente su un fianco, il secondo lentigginoso sotto il cespuglio crespo di capelli biondicci, maglietta del parco giochi stesso con scritto in basso Alessandro in stampatello felpato, ecco questi due perfetti frequentatori di parchi giochi per famiglie avrebbero ricevuto un bel colpo basso dal mio vomito multicolore proprio davanti ai loro musi tirati in sorrisetti e gridolini, trattenuti dall’aria dell’ampio dondolio.
Sarebbe stato un buon tiro: allenamento 0, vita reale 1.
Ma tant’è, almeno per un giorno devo stare alle regole di questa pantomima che da ogni angolo sputa colori sgargianti e canzoncine e sorride a 44 denti. Cammino per le strade perfettamente curate, con aiuole di erba vera che sembra finta che realmente nessuno calpesta, e funghetti di pietra dipinta che sembrano veri su cui stanno appollaiati coppie di adolescenti, lui occhiali da sole e canottiera nera alla vogatore, lei con il collo e le braccia strizzate in una miriade di collanine di smarties – anche questi finti che sembrano veri – e una maglietta bianca che riporta : i love shoes, nutella and boys.
Sorrido tra me e me. Sì, nei parchi giochi per famiglie è tutto un allenamento.
O almeno spero, perché ci sono adorabili scimpanzé peluche all’entrata del Safari Jungle che sorridono indicandosi gli angoli della bocca con gli indici: così si ride! E scoiattoli ghiottoni in cartapesta proprio a fianco al bistrot di zucchero filato e ciambelle ricavato all’interno di una grossa mela rossa, tutti presi nell’atto di infilarsi nelle guance gonfie lunghi coni di lecca lecca bianchi e gialli: così si mangia!
Così ci si diverte! cantano in coro il gruppo di pennuti non identificati che decorano statici il trenino che attraversa con un giro turistico di piacere visivo tutte le aree del parco.
Piacere visivo. Mi aggiro lenta e sudaticcia per le stradine di ghiaia omogenea nel colore e nella forma, con gli spigoli tutti smussati che a caderci non ti fai nemmeno un graffio. Sento che sto cominciando a pezzarmi, i pantaloncini umidi si arrotolano fastidiosamente sempre più sull’interno coscia, mi si insinua il terrore di vedere sbucare da qualche angolo Biancaneve o peggio ancora Cenerentola.  L’allenamento sì che si farebbe duro ( ma questa è un’altra storia, n.d.a.).
   Senza sosta, mi do all’ultima attrazione del parco, “Shock Tower” si chiama: cinquanta metri di colonna su cui sfila su e giù una navetta circolare con una fila di seggiolini per lato, una greca arancione di sedili in plastica sui quali, una volta seduti, ci si vede calare addosso una spessa imbragatura nera e  imbottita che scende a coprire tutto il busto immobilizzandoti, lasciando libero un minuscolo spazio sopra i fianchi in cui muovere a malapena gli avambracci. Per fare ciao ciao a chi ti guarda da sotto. Per grattarti in naso se ti prude, o per iniziare a fare gesti sconclusionati all’addetto pulsanti nel caso in cui ti venisse un attacco di panico.
È più o meno questa la sensazione – quella del panico dico – che sento crescere in me mentre la navetta sale, e sale, fermandosi a fare ammirare il panorama ai fruitori dell’attrazione, la distesa spumosa di cime verde smeraldo intenso dei pini marittimi e più in là il mare, immobile nella lontananza. Almeno qui sembra reale, penso mentre vado sempre più su.  Mi  giro verso il mio compagno di sedile, cercando partecipazione.
-          Certo che va in alto – dico cercando di sorridere, la guancia premuta contro l’imbottitura che emana un pizzicante fetore di sudore e altri umani odori che lì per lì non ritengo opportuno indagare. Silenzio. Cerco di infilare il naso nella sottile insenatura che l’imbragatura lascia libera tra un posto e l’altro, lasciando una sottile bava di saliva sulla finta pelle dei maniglioni che mi schiacciano il petto e solo ora mi rendo conto che respiro a fatica, il sangue cola veloce giù per la gambe a penzoloni e gonfia i piedi nei sandali.
La piattaforma di sedili continua a salire cigolando sul perno, alle spalle sento rumori di catene che slittano e carrucole non oliate, e più che sentire con le orecchie mi accorgo che ho cominciato a sentire con tutto il corpo. Sì, mi sono indurita in un’inconscia e rossa allerta, così che mi sembra di essere ricoperta di occhi e di orecchi e ogni – clanck – corrisponde esattamente a un mio pelo che si rizza e contemporaneamente coincide con la punta di chiodo che diventa a impercettibili stadi la testa dello sconosciuto con la maglia rossa che ho notato mangiare una frittella appena qualche minuto fa. E la sua frittella ora è scomparsa, anche se so che c’è. Come Dio eccetera eccetera.
-          Certo che va in alto, eh?! – ripeto a voce più acuta, quasi urlando, le mani hanno preso a formicolarmi senza ritegno, soprattutto i mignoli e gli anulari, sgranchisco le dita ma non passa, una corrente elettrica mi parte dalla cervicale e cade a cascata per le braccia dilagando nel petto sempre più stretto sotto i maniglioni neri che mi tengono ferma, una mosca tenuta appiccicata alla ragnatela da un qualche enorme ragno.
Del mio loquace vicino riesco a scorgere soltanto il naso adunco e il mento secco sotto la barba incolta. Lo vedo immobile, la faccia fissa davanti a sé, non mi sente, o non mi vuole sentire.
L’espressione “attacco di panico” deve la sua origine al greco Pan, satiro che amava rincorrere le Ninfee per deliziarsi della loro unione carnale (spesso posteriore). Da qui il significato è traslato e si è modificato nella corrente accezione, ma se ci pensate potreste trovare un’analogia con il panico e la sensazione di essere inesorabilmente rincorsi da qualcuno che vuole … beh, fottervi.

Ho paura.
Da lassù, ho paura.
Di solito eri tu ad averne. Stavamo giù, ai piedi delle mastodontiche costruzioni di divertimento, e tu non facevi che girarci intorno per trovare il punto da cui si riuscivano e vedere meglio gli ingranaggi, ti inginocchiavi ai piedi dei basamenti e accigliavi tutta la faccia, schiacciando la pelle intorno al naso come per capire, poi per dissentire. Non erano sicuri quei marchingegni infernali, mi avresti detto. Mi avresti detto che il biglietto d’ingresso costava così tanto perché in caso di incidente dovevano coprire lo scandalo, poi ti saresti lanciato in un’accurata descrizione di come funzionava il meccanismo di lancio e risalita, aprendo sempre più gli occhi per tentare di comunicarmi l’alto tasso di pericolosità.
Prima non avevo paura, neanche un poco, e ti prendevo per mano e ti tiravo sulle giostre, e a volte tu ci salivi. Ci venivi per davvero, a volte. Non so come fai a essere così tranquilla, mi dicevi. Tu che a quel punto ti incartavi tutto su te stesso e mi chiedevi di tenerti la mano, tu che bastava una montagna russa per far tremare il tuo granitico mondo fermo di occhiali a lente spessa.

L’effetto g è quello che si prova quando si va contro la forza di gravità della terra, quando ci si oppone scagliando la propria massa all’incombente centripetare del cosmo. Il classico vuoto dentro che sopraggiunge al decollo degli aerei, il collo che si gonfia e le orecchie che si tappano.
Arrivando lassù la mia accelerazione di gravità è negativa, ogni organo interno tira fuori gli aculei, smussato con violenza dall’aria, di petto fronteggia un'altezza densa che avvolge e comprime.
Ogni mio organo punta in alto. Ogni mio organo vuole combattere per sé, succhia avido il sangue che impazzisce e di colpo è tutto rosso, il pentagono della giostra per cavalli, le teste di chiodo delle persone e le loro mani che sventagliano un microscopico ciao ciao, le morbide curve devi vialetti, la chiazza azzurrissima della piscina, i tuffatori che volano come mozziconi di sigaretta in aria, l’aria stessa che sfuma in un’interminabile e incolore interferenza.

In una macrosequenza, in alto è tutto rosso.
Ti sei mai sentita così sola?
Come se senza te, che non sei qui ad avere paura, dovessi averne io.
E non è come Montale che sa che i veri occhi sono quelli della moglie. 
Io non lo so, non lo so davvero di chi sia questa paura di cadere.


lunedì 23 agosto 2010

Il modulo di Dio e la madonnara

Questa sera sono uscita, sono andata a fare un giro in paese, a piedi, senza sapere dove andare, da sola. Avevo la bocca secca e mi tremavano le mani, sentivo il cuore nel petto rimbombare pesante, faticosamente, facendo dilagare forte i colpi nello stomaco e più sotto, rimboccando gli intestini e pressando la vescica, con un irrequieto bruciore diffuso in tutto il corpo, gli occhi semichiusi, le palpebre pesanti, la fronte dolente, distante da ogni cosa come se mi avesse ricoperta una colata di buio.

Mentre cammino guardando per terra mi vedo il piede poggiare su una macchia rosa salmone, alzo un poco lo sguardo e mi accorgo di stare per calpestare un grande disegno del volto di Gesù Cristo. La madonnara sta in un angolo accovacciata e di buona lena sfuma la polvere di gesso per perfezionare le punte della corona di spine, alcuni passanti si fermano a guardare alcuni istanti e riprendono la passeggiata. La maggior parte della gente interrompe il chiacchiericcio e sta un attimo in silenzio. Vicino al disegno sta scritto in un infantile corsivo verde  “solo chi crede nel figlio sarà salvato”.
 Due vecchine prendono a bisbigliarsi qualcosa, sono piccole con grosse pance su gambe da insetto e indossano identici scamiciati scuri che lasciano scoperto il petto avvizzito. A una delle due cade un fazzoletto di carta sporco e l’altra si china prontamente per raccoglierlo, piegandosi sul punto vita e tenendo tese le ginocchia bianche che sembrano due gessi crepati. Il cespuglio di capelli argentata ondeggiano nel movimento.
La donna che disegna sorride a tutti placida e io mi rendo conto che ai bordi del grande viso compassionevole del Nostro Salvatore, che occupa l’intera larghezza del marciapiede, ci sono un bel po’ di bancarelle sparse per il viale, bombati quadrati di stoffa bianca al di sotto dei quali brillano piccole forme geometriche arancioni, gialle blu. Visi scuri dietro i banchi allungano ai passanti collane argentate, bracciali, occhiali da sole da quattro soldi. Mostrano un triangolo di denti bianchissimi e sporgono in avanti la testa – 10 euro uno. No, due dieci euro non posso.
Ragazze basse in pantaloncini corti si fermano immobili, in trance, davanti alla distesa di ninnoli, c’è la collana di finte perle viola con il ciondolo di Hello Kitty in plastilina, gli occhi storti formati da due palline nere sul punto di staccarsi, uno straziante sorriso forzato che va da guancia a guancia manco fosse una cravatta argentina. Ci sono grossi anelli di fiori metallici esplosi, con i petali di metallo duri e aperti forzatamente in un fosforescente sbocciare permanente. Le gambe delle ragazze sono abbronzate, un accenno di cellulite trema sopra il cavo pupliteo mentre ponderano il peso da una parte all’altra, piegando all’indietro le ginocchia deboli, indecise sul da farsi.
Tengono una mano dietro la schiena e hanno il dito mignolo intrecciato mollemente a quello del loro fidanzato, che si lecca svogliatamente una montagnetta di gelato in cima al cono e fissa un punto lontano del viale. Gli cade una grossa goccia di gelato al beige sulle Puma, alza il ginocchio piegando in dentro il piede e impreca. Il gelato, già sciolto per conto suo, dopo la caduta è diventato una macchia liquida che ora si espande sulle gote del Cristo.

Per quali motivi è lecito bestemmiare?

 La ragazza in pantaloncini si gira, dice – oh Robi, stai attento -, fa un verso di risata, lui si è chinato per cercare di togliersi la macchia con il tovagliolino, scuote il capo e si avvia verso il bidone più vicino mentre lei torna a fissare le bancarelle. Ci sono due omini stilizzati in terracotta che si abbracciano, una è una saliera e l’altro una pepiera. Uno di quegli oggetti che volano in aria per primi quando due si mollano, il classico gingillo che compri in un attimo di patinate malsane visioni di vita di coppia, un collage di presine e animali di vetro. Lei lo prende in mano, lo mostra al fidanzato, fruga nella borsa per tirare fuori il portafoglio.

Più avanti, c’è Samuel, il ragazzo senegalese che gira in spiaggia con una teca di legno piena di bigiotteria sotto un braccio e un mucchio di vestiti da spiaggia sull’altra spalla. In testa porta un grande cappello di paglia a tesa larga che suole togliersi in un gesto davvero galante mentre si lascia cadere in ginocchio sulla sabbia ogni volta che qualche vecchia rana spaparanzata ad abbronzarsi la carne raggrinzita si mostra interessata a comprargli qualcosa.  E’ un ragazzo alto quasi due metri, dal fisico asciutto sotto i larghi vestiti kaki, nero più del nero, con grandi occhi bianchi lucidi e grandi mani mal curate. Ora ne sta accoccolato sul ciglio della strada, dietro una bancarella di vestiti etnici, più o meno in prossimità del punto esatto in cui la mano del Cristo si solleva nel suo gesto di salvezza.
-          Ciao bella – mi dice riconoscendomi. Gli sorrido. Samuel sta mangiando una grossa pesca arancione dalla buccia pelosa come una pianta grassa. Mi viene in mente che l’altro ieri mi ha detto di aver cominciato il Ramadan.  Niente cibo né acqua fino al tramonto, poi solo frutta. Gli ho chiesto come faceva a stare in spiaggia tutto il giorno senza bere, sotto il sole cocente, andando avanti e indietro senza sosta. Questione d’abitudine mi ha risposto. Tra poco l’estate finisce e torno in Senegal, forse.
-          Questa è di mio fratello – dice indicandomi la bancarella colma di pantaloni di seta con il cavallo bassissimo e borse col manico in bambù. Poi si gira e indica un casolare in pietra abbandonato, probabilmente un punto d’avvistamento marino in disuso. Nel buio riesco a vedere una facciata ricoperta di scritte. GOLDRAKE è VIVO! è scritto in caratteri cubitali di un rosso acceso. – Dormiamo tutti qui. – Aguzzando la vista scorgo una fila di persone sedute per terra con le spalle al muro pasticciato. Si passano della frutta e ridono ad alta voce, proviene un odore forte di marijuana.  – Vuoi venire a vedere? – scuoto la testa. Samuel getta il nocciolo della pesca che rotola lungo tutta la figura del Figlio, attraversando imperterrita l’espressione mogia, gli occhi celeste pastello, il petto coperto dalla tunica bianca. Rotola oltre l’affresco, oltre i piedi dei passanti.

Per quali motivi è lecito pregare?

Delle coppie che girano per la strada, i padri sono assolutamente quelli con l’espressione più triste. Spingono passeggini in cui bambini piccolissimi, fiocchi di carne che sembrano pupazzi caricati a molla, si sporgono dal bracciolo e agitano le braccia rosa trapuntate in movimenti tesi e eccitati. Uno indossa una maglia nera a maniche corte con il logo di un club privato di non so dove e sotto scritto the best party in the world. Mi guarda a lungo, fastidiosamente, prima di girarsi in direzione del vociare della moglie. La moglie sta aggrappata alle grate che circondano la struttura dei tappeti elastici. – togliti gli occhiali! – urla come un’ossessa, aggrappandosi al reticolato e scuotendolo come una King Kong bionda e sudaticcia nell’abbronzatura screpolata. Il figlio salta grandi balzi davanti a lei, imperterrito, gli occhiali che traballano a ogni spinta scivolando sempre più sulla punta del naso, sul viso un’espressione di folle felicità, un sorriso cieco fatto di apparecchio e moccolo colante. La moglie si gira rabbiosa verso il marito – Gli occhiali! Digli di togliersi gli occhiali! – sbraita sempre più forte, gli occhi fuori dalle orbite, mentre il bambino vola sempre più in altro, gli occhiali si stortano mentre lui salta buttando in fuori il sedere magro, il marito si avvicina a una lentezza tale che sembra star tornando indietro e il neonato nel passeggino si è immobilizzato e ora gli trema il labbro inferiore e  dondola la testa come un automa, a piccoli scatti, la saliva scende dalla bocca sulle pieghe del mente e da lì si stacca e cade a terra, proprio in mezzo alla fronte del nostro Signore Salvatore.
Solo chi crede nel figlio sarà salvato.

La bella faccia dipinta con colori chiari è un insieme translucido di salive e gelati e moccoli e sputi.
Alla fine ci cammino sopra pure io.

Ci sono determinate aree del cervello deputata alla gestione degli stati mistico- religiosi, principalmente il fascio mediano del prosencefalo. Il modulo di Dio, lo chiamano. Secondo le neuro teologia, ogni essere umano è un devoto credente con l’emisfero sinistro del cervello, mentre secondo quello destro sarebbe un ateo convinto.

Alla fine ci cammino sopra, a questo grande viso umano che ormai non è più solo, volente o nolente, è stato ricoperto da bestemmie e preghiere, indifferenza e devozione.

Ci cammino sopra e lo trovo bellissimo.
Ci cammino sopra e sono sicura che non sono mai stata così io a muovere quei passi. 

Il modulo di Dio e la madonnara


Mentre cammino guardando per terra mi vedo il piede poggiare su una macchia rosa salmone, alzo un poco lo sguardo e mi accorgo di stare per calpestare un grande disegno del volto di Gesù Cristo. La madonnara sta in un angolo accovacciata e di buona lena sfuma la polvere di gesso per perfezionare le punte della corona di spine, alcuni passanti si fermano a guardare alcuni istanti e riprendono la passeggiata. La maggior parte della gente interrompe il chiacchiericcio e sta un attimo in silenzio. Vicino al disegno sta scritto in un infantile corsivo verde  “solo chi crede nel figlio sarà salvato”.
 Due vecchine prendono a bisbigliarsi qualcosa, sono piccole con grosse pance su gambe da insetto e indossano identici scamiciati scuri che lasciano scoperto il petto avvizzito. A una delle due cade un fazzoletto di carta sporco e l’altra si china prontamente per raccoglierlo, piegandosi sul punto vita e tenendo tese le ginocchia bianche che sembrano due gessi crepati. Il cespuglio di capelli argentati ondeggiano nel movimento.
La donna che disegna sorride a tutti placida e io mi rendo conto che ai bordi del grande viso compassionevole del Nostro Salvatore, che occupa l’intera larghezza del marciapiede, ci sono un bel po’ di bancarelle sparse per il viale, bombati quadrati di stoffa bianca al di sotto dei quali brillano piccole forme geometriche arancioni, gialle blu. Visi scuri dietro i banchi allungano ai passanti collane argentate, bracciali, occhiali da sole da quattro soldi. Mostrano un triangolo di denti bianchissimi e sporgono in avanti la testa – 10 euro uno. No, due dieci euro non posso.
Ragazze basse in pantaloncini corti si fermano immobili, in trance, davanti alla distesa di ninnoli, c’è la collana di finte perle viola con il ciondolo di Hello Kitty in plastilina, gli occhi storti formati da due palline nere sul punto di staccarsi, uno straziante sorriso forzato che va da guancia a guancia manco fosse una cravatta argentina. Ci sono grossi anelli di fiori metallici esplosi, con i petali di metallo duri e aperti forzatamente in un fosforescente sbocciare permanente. Le gambe delle ragazze sono abbronzate, un accenno di cellulite trema sopra il cavo pupliteo mentre ponderano il peso da una parte all’altra, piegando all’indietro le ginocchia deboli, indecise sul da farsi.
Tengono una mano dietro la schiena e hanno il dito mignolo intrecciato mollemente a quello del loro fidanzato, che si lecca svogliatamente una montagnetta di gelato in cima al cono e fissa un punto lontano del viale. Gli cade una grossa goccia di gelato beige sulle Puma, alza il ginocchio piegando in dentro il piede e impreca. Il gelato, già sciolto per conto suo, dopo la caduta è diventato una macchia liquida che ora si espande sulle gote del Cristo.

Per quali motivi è lecito bestemmiare?

 La ragazza in pantaloncini si gira, dice – oh Robi, stai attento -, fa un verso di risata, lui si è chinato per cercare di togliersi la macchia con il tovagliolino, scuote il capo e si avvia verso il bidone più vicino mentre lei torna a fissare le bancarelle. Ci sono due omini stilizzati in terracotta che si abbracciano, una è una saliera e l’altro una pepiera. Uno di quegli oggetti che volano in aria per primi quando due si mollano, il classico gingillo che compri in un attimo di patinate malsane visioni di vita di coppia, un collage di presine e animali di vetro. Lei lo prende in mano, lo mostra al fidanzato, fruga nella borsa per tirare fuori il portafoglio.

Più avanti, c’è Samuel, il ragazzo senegalese che gira in spiaggia con una teca di legno piena di bigiotteria sotto un braccio e un mucchio di vestiti da spiaggia sull'altra spalla. In testa porta un grande cappello di paglia a tesa larga che suole togliersi in un gesto davvero galante mentre si lascia cadere in ginocchio sulla sabbia ogni volta che qualche vecchia rana spaparanzata ad abbronzarsi la carne raggrinzita si mostra interessata a comprargli qualcosa.  E’ un ragazzo alto quasi due metri, dal fisico asciutto sotto i larghi vestiti kaki, nero più del nero, con grandi occhi bianchi lucidi e grandi mani mal curate. Ora ne sta accoccolato sul ciglio della strada, dietro una bancarella di vestiti etnici, più o meno in prossimità del punto esatto in cui la mano del Cristo si solleva nel suo gesto di salvezza.
-          Ciao bella – mi dice riconoscendomi. Gli sorrido. Samuel sta mangiando una grossa pesca arancione dalla buccia pelosa come una pianta grassa. Mi viene in mente che l’altro ieri mi ha detto di aver cominciato il Ramadan.  Niente cibo né acqua fino al tramonto, poi solo frutta. Gli ho chiesto come facesse a stare in spiaggia tutto il giorno senza bere, sotto il sole cocente, andando avanti e indietro senza sosta. Questione d’abitudine mi ha risposto. Tra poco l’estate finisce e torno in Senegal, forse.
-          Questa è di mio fratello – dice indicandomi la bancarella colma di pantaloni di seta con il cavallo bassissimo e borse col manico in bambù. Poi si gira e indica un casolare in pietra abbandonato, probabilmente un punto d’avvistamento marino in disuso. Nel buio riesco a vedere una facciata ricoperta di scritte. GOLDRAKE è VIVO! è scritto in caratteri cubitali di un rosso acceso. – Dormiamo tutti qui. – Aguzzando la vista scorgo una fila di persone sedute per terra con le spalle al muro pasticciato. Si passano della frutta e ridono ad alta voce, proviene un odore forte di marijuana.  – Vuoi venire a vedere? – scuoto la testa. Samuel getta il nocciolo della pesca che rotola lungo tutta la figura del Figlio, attraversando imperterrito l’espressione mogia, gli occhi celeste pastello, il petto coperto dalla tunica bianca. Rotola oltre l’affresco, oltre i piedi dei passanti.

Per quali motivi è lecito pregare?

Delle coppie che girano per la strada, i padri sono assolutamente quelli con l’espressione più triste. Spingono passeggini in cui bambini piccolissimi, fiocchi di carne che sembrano pupazzi caricati a molla, si sporgono dal bracciolo e agitano le braccia rosa trapuntate in movimenti tesi e eccitati. Uno indossa una maglia nera a maniche corte con il logo di un club privato di non so dove e sotto scritto the best party in the world. Mi guarda a lungo, fastidiosamente, prima di girarsi in direzione del vociare della moglie. La moglie sta aggrappata alle grate che circondano la struttura dei tappeti elastici. – togliti gli occhiali! – urla come un’ossessa, aggrappandosi al reticolato e scuotendolo come una King Kong bionda e sudaticcia nell’abbronzatura screpolata. Il figlio salta grandi balzi davanti a lei, imperterrito, gli occhiali che traballano a ogni spinta scivolando sempre più sulla punta del naso, sul viso un’espressione di folle felicità, un sorriso cieco fatto di apparecchio e moccolo colante. La moglie si gira rabbiosa verso il marito – Gli occhiali! Digli di togliersi gli occhiali! – sbraita sempre più forte, gli occhi fuori dalle orbite, mentre il bambino vola sempre più in altro, gli occhiali si stortano mentre lui salta buttando in fuori il sedere magro, il marito si avvicina a una lentezza tale che sembra star tornando indietro e il neonato nel passeggino si è immobilizzato e ora gli trema il labbro inferiore e  dondola la testa come un automa, a piccoli scatti, la saliva scende dalla bocca sulle pieghe del mento e da lì si stacca e cade a terra, proprio in mezzo alla fronte del nostro Signore Salvatore.
Solo chi crede nel figlio sarà salvato.

La bella faccia dipinta con colori chiari è un insieme translucido di salive e gelati e moccoli e sputi.
Alla fine ci cammino sopra pure io.

Ci sono determinate aree del cervello deputate alla gestione degli stati mistico- religiosi, principalmente il fascio mediano del prosencefalo. Il modulo di Dio, lo chiamano. Secondo le neuro teologia, ogni essere umano è un devoto credente con l’emisfero sinistro del cervello, mentre secondo quello destro sarebbe un ateo convinto.

Alla fine ci cammino sopra, a questo grande viso umano che ormai non è più solo, volente o nolente, è stato ricoperto da bestemmie e preghiere, indifferenza e devozione.

Ci cammino sopra e lo trovo bellissimo.
Ci cammino sopra e sono sicura che non sono mai stata così io a muovere quei passi. 

venerdì 20 agosto 2010

L'erosione marina e le tue domande stupide

-          Perché  gli scrittori si suicidano? - sguardo nero attraverso ciglia corte e dritte. Mi sono voltata,  stupita – è una domanda stupida. Stupida e anche … non so, vergognosa – il mare in sottofondo frusciava potente, mangiandosi gli spazi di silenzio tra le rocce. Occhi di granchio lucidi e salmastri facevano capolino dai buchi e dalle insenature, in un nascosto compito di vigilanza marina.  
-          Oggi ho voglia di fare domande stupide –
I paguri espongono le loro case al sole denso del mezzogiorno su uno scoglio chiaro e piatto. Una messa senza repliche, la lenta, inesorabile avanzata di una conchiglia sul dorso di minuscole zampe arancioni. Una conchiglia da niente, povera nel suo biancore a spirale. Una conchiglia da poco. Che è parte integrante di quello che sei, che è ciò stesso che sei.
La tua casa. La tua vergogna. Le tue domande stupide.
-          Come le domande che fanno i bambini, quelle che ti danno l’impressione di determinare per la prima volta la natura delle cose –
-          Capisco –  ho slegato il costume dietro il collo per legarlo sulla schiena. I lacci erano umidi e continuavano a scapparmi fra le dita, il movimento non era dei più facili, occorreva inarcare le lombari e senza vedere fare un nodo appena sotto le scapole, con le spalle e i gomiti tirati all’ingiù, i polsi torti e tesi per non farsi scappare quei rotolini di stoffa sottili.  
 Tu te ne stavi seduto sul tuo asciugamano rosso, cingendo con le braccia le ginocchia vicine al petto, immobile e torvo. – aiutami – ti ho detto. Senza aprire bocca mi sei venuto dietro, vicino ai fianchi scoperti e vulnerabili, e hai legato i lacci, continuando a indicare col mento il davanti del reggiseno che scendeva lasciando scoperta una mezzaluna d’areola teneramente rosea.
Mi sono terribilmente infastidita. Non facevi altro che infastidirmi, nelle ultime ore.
Le tue domande stupide. Non mi importa nulla era la frase che ti avevo ripetuto di più in quei giorni.
Mi sono alzata e sono andata senza voltarmi a sedermi sulla punta di uno scoglio aguzzo, martoriato dagli schizzi. Una sorta di gigante spugna solida e nera, con così tanti buchi da non saper dire se la superficie fosse più vuota o più piena. Il grande becco adunco di un gabbiano chino per bersi acqua salata.

Erosa. Il mare nel suo sensuale andirivieni si porta via la roccia. A forza di carezze, moine e strusciamenti questo grande amante ti consuma. Una miriade di piccoli microschizzi fanno la corte per mesi, anni all’imponente pancia di minerali sulla quale si trovano a cozzare e guarda un po’? dopo qualche tempo la roccia è diminuita, si è smussata e rimpicciolita, ha chinato il capo adattandosi alle smancerie salate del brulichio liquido.
E il mare? Non è mai soddisfatto. Non si è scelto la porzione di scoglio su cui infrangersi, semplicemente le onde si sono lasciate trasportare da altre onde e per caso si sono trovate faccia a faccia con quella costa, nella moltitudine di sassi e massi su cui lavorare, incessantemente giorno e notte, con perizia, finché morte non li separi.

Ho visto la tua ombra avvicinarsi e sedersi a pochi passi dietro di me. La spiaggia non era lo scenario che meglio si adattava alla tua persona: davi l’idea di stare sempre scomodo, di non sapere come sdraiarti e lasciarti andare sulla sabbia. La tua figura cercava vette che non trovava, cercava burroni, neve e stelle alpine. Non riuscivi a rassegnarti a questa distesa di azzurro che incede e si ritrae, spianando ogni fervore umano.

Anche ora, rannicchiato sullo scoglio, dai l’idea di essere un pesce fuor d’acqua. Anzi, uno stambecco che ha saggiato il mare con la punta dello zoccolo senza gradimento, e ora si stringe nella sua solitudine su di un masso sul quale non può stagliarsi, e parla alla sua ombra.

-          Secondo te ha ragione il mare? O la roccia? – mi hai chiesto la voce che quasi strideva per contrastare il vento.
-          Secondo me non c’è giustizia né obiettività in tutto questo – ho detto tenendo lo sguardo fisso a un grande masso sottomarino, una gigantesca e maestosa pietra ricoperta di alghe brune, incastonata da una moltitudine di altri piccoli detriti che brillavano sott’acqua come perle.  Vorrei abitarci dentro ho pensato. Tutto quello che ha a che fare con lo scenario sottomarino mi ha sempre ispirato una segreta e preziosa aurea di regalità e oscura magnificenza.
L’acqua in superficie danzava in chiazze di luce e schiuma, tutto il bacino di mare parlava a tonfi e ribollii, e sciacqui e ripensamenti. Il mare non smette mai il suo discorso, accoglie gli spunti degli schizzi e i versi dei risucchi e continua la sua orchestra, scioglie i dubbi nel sale. E le tue domande stupide.

Siamo stati in silenzio, un silenzio che avevamo imparato a creare e che sapeva di realtà. Il nostro ultimo tentativo di stare insieme oltre le divergenze e le smisurate diversità, sospendere ogni parola per preservare quello spazio comune che ci costava tanta fatica, come se il minimo tentativo di comunicare verbalmente avesse contribuito ad allontanarci.

Una realtà silenziosa come la bellezza delle rocce scolpite dall’acqua, dei profondi tagli laterali negli scogli bianchi alla tua sinistra e delle curve barocche che la risacca stava cesellando nelle rocce in basso a destra.

Le onde e gli scogli non stanno mai davvero insieme, si toccano solo perché hanno bisogno le une dell’altro. Si toccano per scoprirsi arginati e levigati. Per abbellirsi e contenersi.

Il fenomeno dell’erosione è fondamentale per mantenere il perfetto equilibrio del suolo terrestre.

-          Questo è un incontro – ha detto uno, - questo è uno scontro – ha detto l’altro, ma le rispettive voci sono state coperte dal rumore di un onda che si infrangeva davanti a noi.  




  

venerdì 13 agosto 2010

Yin e Yang e granita e brioches


Alla mandorla non le piaceva.
Da quando aveva aperto gli occhi quella mattina non aveva pensato quasi ad altro. Il sole bussava con un molle sorriso dalle tapparelle abbassate della camera da letto, un sorriso largo e placido, un abbraccio silenzioso che si insinuava tra le listarelle.
Era vero, si sentiva che si era su un’isola. Il cielo era di un altro colore, più omogeneo che nel resto d’Italia. Più sicuro. Tutta la natura in generale le sembrava in qualche modo più spavalda, più indolente. Il giorno prima nel tragitto che l’avrebbe portata ad Avola aveva visto dal finestrino del taxi piante di fichi d’India crescere ovunque grasse e ovali, la terra bruciare al calore del tramonto, rosolando rossa e viva.
Aveva aperto gli occhi e era stata per qualche tempo sdraiata a pancia in su nell’alto letto di legno pesante, inspirando lievemente quell’aria tiepida del risveglio.
Iniziando a viere con parsimonia.
 Si sentiva fluttuare nella penombra, intravedeva le forme spigolose dei mobili scuri emergere dagli angoli bui della stanza.
Tutto esisteva imponente e indifferente, molto più di quanto lei stessa si sentisse esistere.
Aveva pensato a te, giusto un attimo. Lo sguardo fisso al rosone in bassorilievo al centro del soffitto, aveva passato mentalmente in rassegna un catalogo di percezioni abbinate alla tua persona: il tono di voce, la trasparenza degli occhi, l’impressione della tua mano che si sistema i capelli dietro l’orecchio. I tuoi no, i tuoi sorrisi di spalle.
Si era girata su un fianco e aveva ripreso a pensare alle granite. Con un piccolo scatto era scesa dal letto e si era diretta ai servizi. Si era tolta la camicia da notte leggera e si era infilata il costume su per la pelle sudaticcia. Le mutandine avevano fatto attrito sulle cosce appena sopra le ginocchia. Si era guardata allo specchio, aveva alzato il mento e poi l’aveva subito abbassato un pochino, girando la testa a destra e a sinistra. Aveva inumidito la frangia, ci aveva applicato una noce di schiuma e poi aveva passato più volte il pettine per allisciarla e sistemarla in modo che le cadesse morbida ai lati della fronte. Aveva raccolto i capelli sulla nuca in una treccia morbida che finiva in un boccolo.

Iniziando a vivere con parsimonia.

Era scesa nella strada bianca di luce, costeggiata da bianche case e leggere, senza pretese. Ogni cosa ha il tetto basso qui, aveva pensato. Tetti piani che spianano l’orizzonte e aprono la vista, tetti che non conoscono la paura di guardare oltre.
Perché oltre c’è solo il mare.
Era entrata nella pasticceria dai tavoli rosa e verdi. Aveva notato anche quella il giorno precedente. Il taxi si era fermato al semaforo davanti alla vetrina, e lei aveva osservato in un potente accesso di acquolina le enormi fette di torte gelato viennesi che campeggiavano ordinate in diagonali dietro i vetri spessi e appannati dei frigoriferi. C’era qualcosa di diabolico nella loro perfezione. Marrone bianco marrone, in parti esattamente uguali in ogni fetta, identica ciliegine caramellata in cima. Di cose di questo tipo era fatta la casa della strega di Hansel e Gretel.

Era l’una e dentro il locale era deserto e soffocante al tempo stesso.
Lui passava lo strofinaccio sul bancone già lucido.
Non le chiese prego cosa desidera, ma quando la guardò le parve che tutta la gentilezza del mondo si fosse riversata in quegli occhi a spicchio che si chiudevano umidi e nocciola vicino al naso per aprirsi in un ventaglio bianchissimo verso l’esterno del viso.
-          Mandorla, pistacchio, caffè, cioccolato, limone … e le brioches sono queste – prese una grossa ciambella dorata, sulla cui sommità si intrecciava un filo di crema gialla, e le diede le spalle per infornarla.
Bello.
-          Mmm … mandorla – sorrisi – anzi no, pistacchio. –
Sorrisi. – te ne do un po’ alla mandorla in un bicchiere, così la assaggi –  si girò di nuovo – i bicchieri di vetro li ho tutti fuori, ti spiace se ne uso uno di plastica? –

 Alla mandorla non le piaceva.
  Sorbì la sua prima granita e brioches seduta a un tavolino nella piccola piazza bianca dai tetti bassi, nel mezzo della quale possenti leoni in pietra si abbeveravano ad una fontana vuota.

Secondo i principi dello yin e dello yang, c’è una misteriosa commistione di poli opposti che permea il tutto, e gli opposti per eccellenza sono il mascolino e il femminile, ai quali vengono attribuiti qualità contrarie e complementari.
Il femminile è freddo, umido e  molle come una granita siciliana.
Il mascolino è caldo, secco e pieno come la brioches appena tolta dal forno.
Questi due principi si rincorrono eternamente, presupponendosi a vicenda, susseguendosi e creandosi l’un l’altro nella loro necessaria ripetizione, come onde.

Perché oltre c’è sole il mare.

Sarebbe tornata da lui la sera stessa, lo avrebbe guardato dritto negli occhi, facendosi vicino, gli avrebbe chiesto – ti va di bere qualcosa? ti fa di fare due passi?
Una notte piccola, svanita, li avrebbe stretti sempre più insieme. Un vicolo, se vuoi, il lasciarsi andare.

Cos’ha da perdere? Il ritmo non si perde mai, anche a volerlo.
Iniziando a vivere con parsimonia.

Le ore erano volate in un’impudente e spietata leggerezza, si erano sgretolate come stelle di sabbia. A mezzanotte decise che avrebbe provato un altro gusto, fragola forse, con sopra la panna, tanto le brioches erano uguali ovunque, come gli uomini, e sarebbe andata a dormire.
In un’altra pasticceria.
Yin è nascondersi.