venerdì 27 agosto 2010

L'effetto g e tu non ci sei

-          Certo che va in alto –

 Sono reduce da ben cinque minuti di scombussolamenti viscerali causati dalla Nave Pirata - o forse è una Gondola Pirata - sulla quale la felice coppia di padre con figlio seduta davanti a me ha rischiato in più occasioni di vedere lo yogurt bianco che ho mangiato a colazione e la sfoglia al mirtillo che ho mangiato come seconda colazione ben colorati e lucidi di bile proprio lì, sulla poppa – o forse era la prua? – della nave/gondola. Con tutti i pezzi di mirtillo congelati e scongelati nella sfoglia riproposti nel loro antico splendore violaceo dopo un avanti e indietro particolarmente feroce.
Nei parchi divertimento per famiglie sembra sempre di allenarsi a vivere, non di vivere sul serio.
La coppia canonica padre–figlio, il primo col capello brizzolato, la ciccia attorno alla pancia che straborda schiacciata dall’asta metallica di sicurezza e il marsupio blu scuro marca Eni lasciato cadere mollemente su un fianco, il secondo lentigginoso sotto il cespuglio crespo di capelli biondicci, maglietta del parco giochi stesso con scritto in basso Alessandro in stampatello felpato, ecco questi due perfetti frequentatori di parchi giochi per famiglie avrebbero ricevuto un bel colpo basso dal mio vomito multicolore proprio davanti ai loro musi tirati in sorrisetti e gridolini, trattenuti dall’aria dell’ampio dondolio.
Sarebbe stato un buon tiro: allenamento 0, vita reale 1.
Ma tant’è, almeno per un giorno devo stare alle regole di questa pantomima che da ogni angolo sputa colori sgargianti e canzoncine e sorride a 44 denti. Cammino per le strade perfettamente curate, con aiuole di erba vera che sembra finta che realmente nessuno calpesta, e funghetti di pietra dipinta che sembrano veri su cui stanno appollaiati coppie di adolescenti, lui occhiali da sole e canottiera nera alla vogatore, lei con il collo e le braccia strizzate in una miriade di collanine di smarties – anche questi finti che sembrano veri – e una maglietta bianca che riporta : i love shoes, nutella and boys.
Sorrido tra me e me. Sì, nei parchi giochi per famiglie è tutto un allenamento.
O almeno spero, perché ci sono adorabili scimpanzé peluche all’entrata del Safari Jungle che sorridono indicandosi gli angoli della bocca con gli indici: così si ride! E scoiattoli ghiottoni in cartapesta proprio a fianco al bistrot di zucchero filato e ciambelle ricavato all’interno di una grossa mela rossa, tutti presi nell’atto di infilarsi nelle guance gonfie lunghi coni di lecca lecca bianchi e gialli: così si mangia!
Così ci si diverte! cantano in coro il gruppo di pennuti non identificati che decorano statici il trenino che attraversa con un giro turistico di piacere visivo tutte le aree del parco.
Piacere visivo. Mi aggiro lenta e sudaticcia per le stradine di ghiaia omogenea nel colore e nella forma, con gli spigoli tutti smussati che a caderci non ti fai nemmeno un graffio. Sento che sto cominciando a pezzarmi, i pantaloncini umidi si arrotolano fastidiosamente sempre più sull’interno coscia, mi si insinua il terrore di vedere sbucare da qualche angolo Biancaneve o peggio ancora Cenerentola.  L’allenamento sì che si farebbe duro ( ma questa è un’altra storia, n.d.a.).
   Senza sosta, mi do all’ultima attrazione del parco, “Shock Tower” si chiama: cinquanta metri di colonna su cui sfila su e giù una navetta circolare con una fila di seggiolini per lato, una greca arancione di sedili in plastica sui quali, una volta seduti, ci si vede calare addosso una spessa imbragatura nera e  imbottita che scende a coprire tutto il busto immobilizzandoti, lasciando libero un minuscolo spazio sopra i fianchi in cui muovere a malapena gli avambracci. Per fare ciao ciao a chi ti guarda da sotto. Per grattarti in naso se ti prude, o per iniziare a fare gesti sconclusionati all’addetto pulsanti nel caso in cui ti venisse un attacco di panico.
È più o meno questa la sensazione – quella del panico dico – che sento crescere in me mentre la navetta sale, e sale, fermandosi a fare ammirare il panorama ai fruitori dell’attrazione, la distesa spumosa di cime verde smeraldo intenso dei pini marittimi e più in là il mare, immobile nella lontananza. Almeno qui sembra reale, penso mentre vado sempre più su.  Mi  giro verso il mio compagno di sedile, cercando partecipazione.
-          Certo che va in alto – dico cercando di sorridere, la guancia premuta contro l’imbottitura che emana un pizzicante fetore di sudore e altri umani odori che lì per lì non ritengo opportuno indagare. Silenzio. Cerco di infilare il naso nella sottile insenatura che l’imbragatura lascia libera tra un posto e l’altro, lasciando una sottile bava di saliva sulla finta pelle dei maniglioni che mi schiacciano il petto e solo ora mi rendo conto che respiro a fatica, il sangue cola veloce giù per la gambe a penzoloni e gonfia i piedi nei sandali.
La piattaforma di sedili continua a salire cigolando sul perno, alle spalle sento rumori di catene che slittano e carrucole non oliate, e più che sentire con le orecchie mi accorgo che ho cominciato a sentire con tutto il corpo. Sì, mi sono indurita in un’inconscia e rossa allerta, così che mi sembra di essere ricoperta di occhi e di orecchi e ogni – clanck – corrisponde esattamente a un mio pelo che si rizza e contemporaneamente coincide con la punta di chiodo che diventa a impercettibili stadi la testa dello sconosciuto con la maglia rossa che ho notato mangiare una frittella appena qualche minuto fa. E la sua frittella ora è scomparsa, anche se so che c’è. Come Dio eccetera eccetera.
-          Certo che va in alto, eh?! – ripeto a voce più acuta, quasi urlando, le mani hanno preso a formicolarmi senza ritegno, soprattutto i mignoli e gli anulari, sgranchisco le dita ma non passa, una corrente elettrica mi parte dalla cervicale e cade a cascata per le braccia dilagando nel petto sempre più stretto sotto i maniglioni neri che mi tengono ferma, una mosca tenuta appiccicata alla ragnatela da un qualche enorme ragno.
Del mio loquace vicino riesco a scorgere soltanto il naso adunco e il mento secco sotto la barba incolta. Lo vedo immobile, la faccia fissa davanti a sé, non mi sente, o non mi vuole sentire.
L’espressione “attacco di panico” deve la sua origine al greco Pan, satiro che amava rincorrere le Ninfee per deliziarsi della loro unione carnale (spesso posteriore). Da qui il significato è traslato e si è modificato nella corrente accezione, ma se ci pensate potreste trovare un’analogia con il panico e la sensazione di essere inesorabilmente rincorsi da qualcuno che vuole … beh, fottervi.

Ho paura.
Da lassù, ho paura.
Di solito eri tu ad averne. Stavamo giù, ai piedi delle mastodontiche costruzioni di divertimento, e tu non facevi che girarci intorno per trovare il punto da cui si riuscivano e vedere meglio gli ingranaggi, ti inginocchiavi ai piedi dei basamenti e accigliavi tutta la faccia, schiacciando la pelle intorno al naso come per capire, poi per dissentire. Non erano sicuri quei marchingegni infernali, mi avresti detto. Mi avresti detto che il biglietto d’ingresso costava così tanto perché in caso di incidente dovevano coprire lo scandalo, poi ti saresti lanciato in un’accurata descrizione di come funzionava il meccanismo di lancio e risalita, aprendo sempre più gli occhi per tentare di comunicarmi l’alto tasso di pericolosità.
Prima non avevo paura, neanche un poco, e ti prendevo per mano e ti tiravo sulle giostre, e a volte tu ci salivi. Ci venivi per davvero, a volte. Non so come fai a essere così tranquilla, mi dicevi. Tu che a quel punto ti incartavi tutto su te stesso e mi chiedevi di tenerti la mano, tu che bastava una montagna russa per far tremare il tuo granitico mondo fermo di occhiali a lente spessa.

L’effetto g è quello che si prova quando si va contro la forza di gravità della terra, quando ci si oppone scagliando la propria massa all’incombente centripetare del cosmo. Il classico vuoto dentro che sopraggiunge al decollo degli aerei, il collo che si gonfia e le orecchie che si tappano.
Arrivando lassù la mia accelerazione di gravità è negativa, ogni organo interno tira fuori gli aculei, smussato con violenza dall’aria, di petto fronteggia un'altezza densa che avvolge e comprime.
Ogni mio organo punta in alto. Ogni mio organo vuole combattere per sé, succhia avido il sangue che impazzisce e di colpo è tutto rosso, il pentagono della giostra per cavalli, le teste di chiodo delle persone e le loro mani che sventagliano un microscopico ciao ciao, le morbide curve devi vialetti, la chiazza azzurrissima della piscina, i tuffatori che volano come mozziconi di sigaretta in aria, l’aria stessa che sfuma in un’interminabile e incolore interferenza.

In una macrosequenza, in alto è tutto rosso.
Ti sei mai sentita così sola?
Come se senza te, che non sei qui ad avere paura, dovessi averne io.
E non è come Montale che sa che i veri occhi sono quelli della moglie. 
Io non lo so, non lo so davvero di chi sia questa paura di cadere.


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