venerdì 27 agosto 2010

L'effetto g e tu non ci sei

-          Certo che va in alto –

 Sono reduce da ben cinque minuti di scombussolamenti viscerali causati dalla Nave Pirata - o forse è una Gondola Pirata - sulla quale la felice coppia di padre con figlio seduta davanti a me ha rischiato in più occasioni di vedere lo yogurt bianco che ho mangiato a colazione e la sfoglia al mirtillo che ho mangiato come seconda colazione ben colorati e lucidi di bile proprio lì, sulla poppa – o forse era la prua? – della nave/gondola. Con tutti i pezzi di mirtillo congelati e scongelati nella sfoglia riproposti nel loro antico splendore violaceo dopo un avanti e indietro particolarmente feroce.
Nei parchi divertimento per famiglie sembra sempre di allenarsi a vivere, non di vivere sul serio.
La coppia canonica padre–figlio, il primo col capello brizzolato, la ciccia attorno alla pancia che straborda schiacciata dall’asta metallica di sicurezza e il marsupio blu scuro marca Eni lasciato cadere mollemente su un fianco, il secondo lentigginoso sotto il cespuglio crespo di capelli biondicci, maglietta del parco giochi stesso con scritto in basso Alessandro in stampatello felpato, ecco questi due perfetti frequentatori di parchi giochi per famiglie avrebbero ricevuto un bel colpo basso dal mio vomito multicolore proprio davanti ai loro musi tirati in sorrisetti e gridolini, trattenuti dall’aria dell’ampio dondolio.
Sarebbe stato un buon tiro: allenamento 0, vita reale 1.
Ma tant’è, almeno per un giorno devo stare alle regole di questa pantomima che da ogni angolo sputa colori sgargianti e canzoncine e sorride a 44 denti. Cammino per le strade perfettamente curate, con aiuole di erba vera che sembra finta che realmente nessuno calpesta, e funghetti di pietra dipinta che sembrano veri su cui stanno appollaiati coppie di adolescenti, lui occhiali da sole e canottiera nera alla vogatore, lei con il collo e le braccia strizzate in una miriade di collanine di smarties – anche questi finti che sembrano veri – e una maglietta bianca che riporta : i love shoes, nutella and boys.
Sorrido tra me e me. Sì, nei parchi giochi per famiglie è tutto un allenamento.
O almeno spero, perché ci sono adorabili scimpanzé peluche all’entrata del Safari Jungle che sorridono indicandosi gli angoli della bocca con gli indici: così si ride! E scoiattoli ghiottoni in cartapesta proprio a fianco al bistrot di zucchero filato e ciambelle ricavato all’interno di una grossa mela rossa, tutti presi nell’atto di infilarsi nelle guance gonfie lunghi coni di lecca lecca bianchi e gialli: così si mangia!
Così ci si diverte! cantano in coro il gruppo di pennuti non identificati che decorano statici il trenino che attraversa con un giro turistico di piacere visivo tutte le aree del parco.
Piacere visivo. Mi aggiro lenta e sudaticcia per le stradine di ghiaia omogenea nel colore e nella forma, con gli spigoli tutti smussati che a caderci non ti fai nemmeno un graffio. Sento che sto cominciando a pezzarmi, i pantaloncini umidi si arrotolano fastidiosamente sempre più sull’interno coscia, mi si insinua il terrore di vedere sbucare da qualche angolo Biancaneve o peggio ancora Cenerentola.  L’allenamento sì che si farebbe duro ( ma questa è un’altra storia, n.d.a.).
   Senza sosta, mi do all’ultima attrazione del parco, “Shock Tower” si chiama: cinquanta metri di colonna su cui sfila su e giù una navetta circolare con una fila di seggiolini per lato, una greca arancione di sedili in plastica sui quali, una volta seduti, ci si vede calare addosso una spessa imbragatura nera e  imbottita che scende a coprire tutto il busto immobilizzandoti, lasciando libero un minuscolo spazio sopra i fianchi in cui muovere a malapena gli avambracci. Per fare ciao ciao a chi ti guarda da sotto. Per grattarti in naso se ti prude, o per iniziare a fare gesti sconclusionati all’addetto pulsanti nel caso in cui ti venisse un attacco di panico.
È più o meno questa la sensazione – quella del panico dico – che sento crescere in me mentre la navetta sale, e sale, fermandosi a fare ammirare il panorama ai fruitori dell’attrazione, la distesa spumosa di cime verde smeraldo intenso dei pini marittimi e più in là il mare, immobile nella lontananza. Almeno qui sembra reale, penso mentre vado sempre più su.  Mi  giro verso il mio compagno di sedile, cercando partecipazione.
-          Certo che va in alto – dico cercando di sorridere, la guancia premuta contro l’imbottitura che emana un pizzicante fetore di sudore e altri umani odori che lì per lì non ritengo opportuno indagare. Silenzio. Cerco di infilare il naso nella sottile insenatura che l’imbragatura lascia libera tra un posto e l’altro, lasciando una sottile bava di saliva sulla finta pelle dei maniglioni che mi schiacciano il petto e solo ora mi rendo conto che respiro a fatica, il sangue cola veloce giù per la gambe a penzoloni e gonfia i piedi nei sandali.
La piattaforma di sedili continua a salire cigolando sul perno, alle spalle sento rumori di catene che slittano e carrucole non oliate, e più che sentire con le orecchie mi accorgo che ho cominciato a sentire con tutto il corpo. Sì, mi sono indurita in un’inconscia e rossa allerta, così che mi sembra di essere ricoperta di occhi e di orecchi e ogni – clanck – corrisponde esattamente a un mio pelo che si rizza e contemporaneamente coincide con la punta di chiodo che diventa a impercettibili stadi la testa dello sconosciuto con la maglia rossa che ho notato mangiare una frittella appena qualche minuto fa. E la sua frittella ora è scomparsa, anche se so che c’è. Come Dio eccetera eccetera.
-          Certo che va in alto, eh?! – ripeto a voce più acuta, quasi urlando, le mani hanno preso a formicolarmi senza ritegno, soprattutto i mignoli e gli anulari, sgranchisco le dita ma non passa, una corrente elettrica mi parte dalla cervicale e cade a cascata per le braccia dilagando nel petto sempre più stretto sotto i maniglioni neri che mi tengono ferma, una mosca tenuta appiccicata alla ragnatela da un qualche enorme ragno.
Del mio loquace vicino riesco a scorgere soltanto il naso adunco e il mento secco sotto la barba incolta. Lo vedo immobile, la faccia fissa davanti a sé, non mi sente, o non mi vuole sentire.
L’espressione “attacco di panico” deve la sua origine al greco Pan, satiro che amava rincorrere le Ninfee per deliziarsi della loro unione carnale (spesso posteriore). Da qui il significato è traslato e si è modificato nella corrente accezione, ma se ci pensate potreste trovare un’analogia con il panico e la sensazione di essere inesorabilmente rincorsi da qualcuno che vuole … beh, fottervi.

Ho paura.
Da lassù, ho paura.
Di solito eri tu ad averne. Stavamo giù, ai piedi delle mastodontiche costruzioni di divertimento, e tu non facevi che girarci intorno per trovare il punto da cui si riuscivano e vedere meglio gli ingranaggi, ti inginocchiavi ai piedi dei basamenti e accigliavi tutta la faccia, schiacciando la pelle intorno al naso come per capire, poi per dissentire. Non erano sicuri quei marchingegni infernali, mi avresti detto. Mi avresti detto che il biglietto d’ingresso costava così tanto perché in caso di incidente dovevano coprire lo scandalo, poi ti saresti lanciato in un’accurata descrizione di come funzionava il meccanismo di lancio e risalita, aprendo sempre più gli occhi per tentare di comunicarmi l’alto tasso di pericolosità.
Prima non avevo paura, neanche un poco, e ti prendevo per mano e ti tiravo sulle giostre, e a volte tu ci salivi. Ci venivi per davvero, a volte. Non so come fai a essere così tranquilla, mi dicevi. Tu che a quel punto ti incartavi tutto su te stesso e mi chiedevi di tenerti la mano, tu che bastava una montagna russa per far tremare il tuo granitico mondo fermo di occhiali a lente spessa.

L’effetto g è quello che si prova quando si va contro la forza di gravità della terra, quando ci si oppone scagliando la propria massa all’incombente centripetare del cosmo. Il classico vuoto dentro che sopraggiunge al decollo degli aerei, il collo che si gonfia e le orecchie che si tappano.
Arrivando lassù la mia accelerazione di gravità è negativa, ogni organo interno tira fuori gli aculei, smussato con violenza dall’aria, di petto fronteggia un'altezza densa che avvolge e comprime.
Ogni mio organo punta in alto. Ogni mio organo vuole combattere per sé, succhia avido il sangue che impazzisce e di colpo è tutto rosso, il pentagono della giostra per cavalli, le teste di chiodo delle persone e le loro mani che sventagliano un microscopico ciao ciao, le morbide curve devi vialetti, la chiazza azzurrissima della piscina, i tuffatori che volano come mozziconi di sigaretta in aria, l’aria stessa che sfuma in un’interminabile e incolore interferenza.

In una macrosequenza, in alto è tutto rosso.
Ti sei mai sentita così sola?
Come se senza te, che non sei qui ad avere paura, dovessi averne io.
E non è come Montale che sa che i veri occhi sono quelli della moglie. 
Io non lo so, non lo so davvero di chi sia questa paura di cadere.


lunedì 23 agosto 2010

Il modulo di Dio e la madonnara

Questa sera sono uscita, sono andata a fare un giro in paese, a piedi, senza sapere dove andare, da sola. Avevo la bocca secca e mi tremavano le mani, sentivo il cuore nel petto rimbombare pesante, faticosamente, facendo dilagare forte i colpi nello stomaco e più sotto, rimboccando gli intestini e pressando la vescica, con un irrequieto bruciore diffuso in tutto il corpo, gli occhi semichiusi, le palpebre pesanti, la fronte dolente, distante da ogni cosa come se mi avesse ricoperta una colata di buio.

Mentre cammino guardando per terra mi vedo il piede poggiare su una macchia rosa salmone, alzo un poco lo sguardo e mi accorgo di stare per calpestare un grande disegno del volto di Gesù Cristo. La madonnara sta in un angolo accovacciata e di buona lena sfuma la polvere di gesso per perfezionare le punte della corona di spine, alcuni passanti si fermano a guardare alcuni istanti e riprendono la passeggiata. La maggior parte della gente interrompe il chiacchiericcio e sta un attimo in silenzio. Vicino al disegno sta scritto in un infantile corsivo verde  “solo chi crede nel figlio sarà salvato”.
 Due vecchine prendono a bisbigliarsi qualcosa, sono piccole con grosse pance su gambe da insetto e indossano identici scamiciati scuri che lasciano scoperto il petto avvizzito. A una delle due cade un fazzoletto di carta sporco e l’altra si china prontamente per raccoglierlo, piegandosi sul punto vita e tenendo tese le ginocchia bianche che sembrano due gessi crepati. Il cespuglio di capelli argentata ondeggiano nel movimento.
La donna che disegna sorride a tutti placida e io mi rendo conto che ai bordi del grande viso compassionevole del Nostro Salvatore, che occupa l’intera larghezza del marciapiede, ci sono un bel po’ di bancarelle sparse per il viale, bombati quadrati di stoffa bianca al di sotto dei quali brillano piccole forme geometriche arancioni, gialle blu. Visi scuri dietro i banchi allungano ai passanti collane argentate, bracciali, occhiali da sole da quattro soldi. Mostrano un triangolo di denti bianchissimi e sporgono in avanti la testa – 10 euro uno. No, due dieci euro non posso.
Ragazze basse in pantaloncini corti si fermano immobili, in trance, davanti alla distesa di ninnoli, c’è la collana di finte perle viola con il ciondolo di Hello Kitty in plastilina, gli occhi storti formati da due palline nere sul punto di staccarsi, uno straziante sorriso forzato che va da guancia a guancia manco fosse una cravatta argentina. Ci sono grossi anelli di fiori metallici esplosi, con i petali di metallo duri e aperti forzatamente in un fosforescente sbocciare permanente. Le gambe delle ragazze sono abbronzate, un accenno di cellulite trema sopra il cavo pupliteo mentre ponderano il peso da una parte all’altra, piegando all’indietro le ginocchia deboli, indecise sul da farsi.
Tengono una mano dietro la schiena e hanno il dito mignolo intrecciato mollemente a quello del loro fidanzato, che si lecca svogliatamente una montagnetta di gelato in cima al cono e fissa un punto lontano del viale. Gli cade una grossa goccia di gelato al beige sulle Puma, alza il ginocchio piegando in dentro il piede e impreca. Il gelato, già sciolto per conto suo, dopo la caduta è diventato una macchia liquida che ora si espande sulle gote del Cristo.

Per quali motivi è lecito bestemmiare?

 La ragazza in pantaloncini si gira, dice – oh Robi, stai attento -, fa un verso di risata, lui si è chinato per cercare di togliersi la macchia con il tovagliolino, scuote il capo e si avvia verso il bidone più vicino mentre lei torna a fissare le bancarelle. Ci sono due omini stilizzati in terracotta che si abbracciano, una è una saliera e l’altro una pepiera. Uno di quegli oggetti che volano in aria per primi quando due si mollano, il classico gingillo che compri in un attimo di patinate malsane visioni di vita di coppia, un collage di presine e animali di vetro. Lei lo prende in mano, lo mostra al fidanzato, fruga nella borsa per tirare fuori il portafoglio.

Più avanti, c’è Samuel, il ragazzo senegalese che gira in spiaggia con una teca di legno piena di bigiotteria sotto un braccio e un mucchio di vestiti da spiaggia sull’altra spalla. In testa porta un grande cappello di paglia a tesa larga che suole togliersi in un gesto davvero galante mentre si lascia cadere in ginocchio sulla sabbia ogni volta che qualche vecchia rana spaparanzata ad abbronzarsi la carne raggrinzita si mostra interessata a comprargli qualcosa.  E’ un ragazzo alto quasi due metri, dal fisico asciutto sotto i larghi vestiti kaki, nero più del nero, con grandi occhi bianchi lucidi e grandi mani mal curate. Ora ne sta accoccolato sul ciglio della strada, dietro una bancarella di vestiti etnici, più o meno in prossimità del punto esatto in cui la mano del Cristo si solleva nel suo gesto di salvezza.
-          Ciao bella – mi dice riconoscendomi. Gli sorrido. Samuel sta mangiando una grossa pesca arancione dalla buccia pelosa come una pianta grassa. Mi viene in mente che l’altro ieri mi ha detto di aver cominciato il Ramadan.  Niente cibo né acqua fino al tramonto, poi solo frutta. Gli ho chiesto come faceva a stare in spiaggia tutto il giorno senza bere, sotto il sole cocente, andando avanti e indietro senza sosta. Questione d’abitudine mi ha risposto. Tra poco l’estate finisce e torno in Senegal, forse.
-          Questa è di mio fratello – dice indicandomi la bancarella colma di pantaloni di seta con il cavallo bassissimo e borse col manico in bambù. Poi si gira e indica un casolare in pietra abbandonato, probabilmente un punto d’avvistamento marino in disuso. Nel buio riesco a vedere una facciata ricoperta di scritte. GOLDRAKE è VIVO! è scritto in caratteri cubitali di un rosso acceso. – Dormiamo tutti qui. – Aguzzando la vista scorgo una fila di persone sedute per terra con le spalle al muro pasticciato. Si passano della frutta e ridono ad alta voce, proviene un odore forte di marijuana.  – Vuoi venire a vedere? – scuoto la testa. Samuel getta il nocciolo della pesca che rotola lungo tutta la figura del Figlio, attraversando imperterrita l’espressione mogia, gli occhi celeste pastello, il petto coperto dalla tunica bianca. Rotola oltre l’affresco, oltre i piedi dei passanti.

Per quali motivi è lecito pregare?

Delle coppie che girano per la strada, i padri sono assolutamente quelli con l’espressione più triste. Spingono passeggini in cui bambini piccolissimi, fiocchi di carne che sembrano pupazzi caricati a molla, si sporgono dal bracciolo e agitano le braccia rosa trapuntate in movimenti tesi e eccitati. Uno indossa una maglia nera a maniche corte con il logo di un club privato di non so dove e sotto scritto the best party in the world. Mi guarda a lungo, fastidiosamente, prima di girarsi in direzione del vociare della moglie. La moglie sta aggrappata alle grate che circondano la struttura dei tappeti elastici. – togliti gli occhiali! – urla come un’ossessa, aggrappandosi al reticolato e scuotendolo come una King Kong bionda e sudaticcia nell’abbronzatura screpolata. Il figlio salta grandi balzi davanti a lei, imperterrito, gli occhiali che traballano a ogni spinta scivolando sempre più sulla punta del naso, sul viso un’espressione di folle felicità, un sorriso cieco fatto di apparecchio e moccolo colante. La moglie si gira rabbiosa verso il marito – Gli occhiali! Digli di togliersi gli occhiali! – sbraita sempre più forte, gli occhi fuori dalle orbite, mentre il bambino vola sempre più in altro, gli occhiali si stortano mentre lui salta buttando in fuori il sedere magro, il marito si avvicina a una lentezza tale che sembra star tornando indietro e il neonato nel passeggino si è immobilizzato e ora gli trema il labbro inferiore e  dondola la testa come un automa, a piccoli scatti, la saliva scende dalla bocca sulle pieghe del mente e da lì si stacca e cade a terra, proprio in mezzo alla fronte del nostro Signore Salvatore.
Solo chi crede nel figlio sarà salvato.

La bella faccia dipinta con colori chiari è un insieme translucido di salive e gelati e moccoli e sputi.
Alla fine ci cammino sopra pure io.

Ci sono determinate aree del cervello deputata alla gestione degli stati mistico- religiosi, principalmente il fascio mediano del prosencefalo. Il modulo di Dio, lo chiamano. Secondo le neuro teologia, ogni essere umano è un devoto credente con l’emisfero sinistro del cervello, mentre secondo quello destro sarebbe un ateo convinto.

Alla fine ci cammino sopra, a questo grande viso umano che ormai non è più solo, volente o nolente, è stato ricoperto da bestemmie e preghiere, indifferenza e devozione.

Ci cammino sopra e lo trovo bellissimo.
Ci cammino sopra e sono sicura che non sono mai stata così io a muovere quei passi. 

Il modulo di Dio e la madonnara


Mentre cammino guardando per terra mi vedo il piede poggiare su una macchia rosa salmone, alzo un poco lo sguardo e mi accorgo di stare per calpestare un grande disegno del volto di Gesù Cristo. La madonnara sta in un angolo accovacciata e di buona lena sfuma la polvere di gesso per perfezionare le punte della corona di spine, alcuni passanti si fermano a guardare alcuni istanti e riprendono la passeggiata. La maggior parte della gente interrompe il chiacchiericcio e sta un attimo in silenzio. Vicino al disegno sta scritto in un infantile corsivo verde  “solo chi crede nel figlio sarà salvato”.
 Due vecchine prendono a bisbigliarsi qualcosa, sono piccole con grosse pance su gambe da insetto e indossano identici scamiciati scuri che lasciano scoperto il petto avvizzito. A una delle due cade un fazzoletto di carta sporco e l’altra si china prontamente per raccoglierlo, piegandosi sul punto vita e tenendo tese le ginocchia bianche che sembrano due gessi crepati. Il cespuglio di capelli argentati ondeggiano nel movimento.
La donna che disegna sorride a tutti placida e io mi rendo conto che ai bordi del grande viso compassionevole del Nostro Salvatore, che occupa l’intera larghezza del marciapiede, ci sono un bel po’ di bancarelle sparse per il viale, bombati quadrati di stoffa bianca al di sotto dei quali brillano piccole forme geometriche arancioni, gialle blu. Visi scuri dietro i banchi allungano ai passanti collane argentate, bracciali, occhiali da sole da quattro soldi. Mostrano un triangolo di denti bianchissimi e sporgono in avanti la testa – 10 euro uno. No, due dieci euro non posso.
Ragazze basse in pantaloncini corti si fermano immobili, in trance, davanti alla distesa di ninnoli, c’è la collana di finte perle viola con il ciondolo di Hello Kitty in plastilina, gli occhi storti formati da due palline nere sul punto di staccarsi, uno straziante sorriso forzato che va da guancia a guancia manco fosse una cravatta argentina. Ci sono grossi anelli di fiori metallici esplosi, con i petali di metallo duri e aperti forzatamente in un fosforescente sbocciare permanente. Le gambe delle ragazze sono abbronzate, un accenno di cellulite trema sopra il cavo pupliteo mentre ponderano il peso da una parte all’altra, piegando all’indietro le ginocchia deboli, indecise sul da farsi.
Tengono una mano dietro la schiena e hanno il dito mignolo intrecciato mollemente a quello del loro fidanzato, che si lecca svogliatamente una montagnetta di gelato in cima al cono e fissa un punto lontano del viale. Gli cade una grossa goccia di gelato beige sulle Puma, alza il ginocchio piegando in dentro il piede e impreca. Il gelato, già sciolto per conto suo, dopo la caduta è diventato una macchia liquida che ora si espande sulle gote del Cristo.

Per quali motivi è lecito bestemmiare?

 La ragazza in pantaloncini si gira, dice – oh Robi, stai attento -, fa un verso di risata, lui si è chinato per cercare di togliersi la macchia con il tovagliolino, scuote il capo e si avvia verso il bidone più vicino mentre lei torna a fissare le bancarelle. Ci sono due omini stilizzati in terracotta che si abbracciano, una è una saliera e l’altro una pepiera. Uno di quegli oggetti che volano in aria per primi quando due si mollano, il classico gingillo che compri in un attimo di patinate malsane visioni di vita di coppia, un collage di presine e animali di vetro. Lei lo prende in mano, lo mostra al fidanzato, fruga nella borsa per tirare fuori il portafoglio.

Più avanti, c’è Samuel, il ragazzo senegalese che gira in spiaggia con una teca di legno piena di bigiotteria sotto un braccio e un mucchio di vestiti da spiaggia sull'altra spalla. In testa porta un grande cappello di paglia a tesa larga che suole togliersi in un gesto davvero galante mentre si lascia cadere in ginocchio sulla sabbia ogni volta che qualche vecchia rana spaparanzata ad abbronzarsi la carne raggrinzita si mostra interessata a comprargli qualcosa.  E’ un ragazzo alto quasi due metri, dal fisico asciutto sotto i larghi vestiti kaki, nero più del nero, con grandi occhi bianchi lucidi e grandi mani mal curate. Ora ne sta accoccolato sul ciglio della strada, dietro una bancarella di vestiti etnici, più o meno in prossimità del punto esatto in cui la mano del Cristo si solleva nel suo gesto di salvezza.
-          Ciao bella – mi dice riconoscendomi. Gli sorrido. Samuel sta mangiando una grossa pesca arancione dalla buccia pelosa come una pianta grassa. Mi viene in mente che l’altro ieri mi ha detto di aver cominciato il Ramadan.  Niente cibo né acqua fino al tramonto, poi solo frutta. Gli ho chiesto come facesse a stare in spiaggia tutto il giorno senza bere, sotto il sole cocente, andando avanti e indietro senza sosta. Questione d’abitudine mi ha risposto. Tra poco l’estate finisce e torno in Senegal, forse.
-          Questa è di mio fratello – dice indicandomi la bancarella colma di pantaloni di seta con il cavallo bassissimo e borse col manico in bambù. Poi si gira e indica un casolare in pietra abbandonato, probabilmente un punto d’avvistamento marino in disuso. Nel buio riesco a vedere una facciata ricoperta di scritte. GOLDRAKE è VIVO! è scritto in caratteri cubitali di un rosso acceso. – Dormiamo tutti qui. – Aguzzando la vista scorgo una fila di persone sedute per terra con le spalle al muro pasticciato. Si passano della frutta e ridono ad alta voce, proviene un odore forte di marijuana.  – Vuoi venire a vedere? – scuoto la testa. Samuel getta il nocciolo della pesca che rotola lungo tutta la figura del Figlio, attraversando imperterrito l’espressione mogia, gli occhi celeste pastello, il petto coperto dalla tunica bianca. Rotola oltre l’affresco, oltre i piedi dei passanti.

Per quali motivi è lecito pregare?

Delle coppie che girano per la strada, i padri sono assolutamente quelli con l’espressione più triste. Spingono passeggini in cui bambini piccolissimi, fiocchi di carne che sembrano pupazzi caricati a molla, si sporgono dal bracciolo e agitano le braccia rosa trapuntate in movimenti tesi e eccitati. Uno indossa una maglia nera a maniche corte con il logo di un club privato di non so dove e sotto scritto the best party in the world. Mi guarda a lungo, fastidiosamente, prima di girarsi in direzione del vociare della moglie. La moglie sta aggrappata alle grate che circondano la struttura dei tappeti elastici. – togliti gli occhiali! – urla come un’ossessa, aggrappandosi al reticolato e scuotendolo come una King Kong bionda e sudaticcia nell’abbronzatura screpolata. Il figlio salta grandi balzi davanti a lei, imperterrito, gli occhiali che traballano a ogni spinta scivolando sempre più sulla punta del naso, sul viso un’espressione di folle felicità, un sorriso cieco fatto di apparecchio e moccolo colante. La moglie si gira rabbiosa verso il marito – Gli occhiali! Digli di togliersi gli occhiali! – sbraita sempre più forte, gli occhi fuori dalle orbite, mentre il bambino vola sempre più in altro, gli occhiali si stortano mentre lui salta buttando in fuori il sedere magro, il marito si avvicina a una lentezza tale che sembra star tornando indietro e il neonato nel passeggino si è immobilizzato e ora gli trema il labbro inferiore e  dondola la testa come un automa, a piccoli scatti, la saliva scende dalla bocca sulle pieghe del mento e da lì si stacca e cade a terra, proprio in mezzo alla fronte del nostro Signore Salvatore.
Solo chi crede nel figlio sarà salvato.

La bella faccia dipinta con colori chiari è un insieme translucido di salive e gelati e moccoli e sputi.
Alla fine ci cammino sopra pure io.

Ci sono determinate aree del cervello deputate alla gestione degli stati mistico- religiosi, principalmente il fascio mediano del prosencefalo. Il modulo di Dio, lo chiamano. Secondo le neuro teologia, ogni essere umano è un devoto credente con l’emisfero sinistro del cervello, mentre secondo quello destro sarebbe un ateo convinto.

Alla fine ci cammino sopra, a questo grande viso umano che ormai non è più solo, volente o nolente, è stato ricoperto da bestemmie e preghiere, indifferenza e devozione.

Ci cammino sopra e lo trovo bellissimo.
Ci cammino sopra e sono sicura che non sono mai stata così io a muovere quei passi. 

venerdì 20 agosto 2010

L'erosione marina e le tue domande stupide

-          Perché  gli scrittori si suicidano? - sguardo nero attraverso ciglia corte e dritte. Mi sono voltata,  stupita – è una domanda stupida. Stupida e anche … non so, vergognosa – il mare in sottofondo frusciava potente, mangiandosi gli spazi di silenzio tra le rocce. Occhi di granchio lucidi e salmastri facevano capolino dai buchi e dalle insenature, in un nascosto compito di vigilanza marina.  
-          Oggi ho voglia di fare domande stupide –
I paguri espongono le loro case al sole denso del mezzogiorno su uno scoglio chiaro e piatto. Una messa senza repliche, la lenta, inesorabile avanzata di una conchiglia sul dorso di minuscole zampe arancioni. Una conchiglia da niente, povera nel suo biancore a spirale. Una conchiglia da poco. Che è parte integrante di quello che sei, che è ciò stesso che sei.
La tua casa. La tua vergogna. Le tue domande stupide.
-          Come le domande che fanno i bambini, quelle che ti danno l’impressione di determinare per la prima volta la natura delle cose –
-          Capisco –  ho slegato il costume dietro il collo per legarlo sulla schiena. I lacci erano umidi e continuavano a scapparmi fra le dita, il movimento non era dei più facili, occorreva inarcare le lombari e senza vedere fare un nodo appena sotto le scapole, con le spalle e i gomiti tirati all’ingiù, i polsi torti e tesi per non farsi scappare quei rotolini di stoffa sottili.  
 Tu te ne stavi seduto sul tuo asciugamano rosso, cingendo con le braccia le ginocchia vicine al petto, immobile e torvo. – aiutami – ti ho detto. Senza aprire bocca mi sei venuto dietro, vicino ai fianchi scoperti e vulnerabili, e hai legato i lacci, continuando a indicare col mento il davanti del reggiseno che scendeva lasciando scoperta una mezzaluna d’areola teneramente rosea.
Mi sono terribilmente infastidita. Non facevi altro che infastidirmi, nelle ultime ore.
Le tue domande stupide. Non mi importa nulla era la frase che ti avevo ripetuto di più in quei giorni.
Mi sono alzata e sono andata senza voltarmi a sedermi sulla punta di uno scoglio aguzzo, martoriato dagli schizzi. Una sorta di gigante spugna solida e nera, con così tanti buchi da non saper dire se la superficie fosse più vuota o più piena. Il grande becco adunco di un gabbiano chino per bersi acqua salata.

Erosa. Il mare nel suo sensuale andirivieni si porta via la roccia. A forza di carezze, moine e strusciamenti questo grande amante ti consuma. Una miriade di piccoli microschizzi fanno la corte per mesi, anni all’imponente pancia di minerali sulla quale si trovano a cozzare e guarda un po’? dopo qualche tempo la roccia è diminuita, si è smussata e rimpicciolita, ha chinato il capo adattandosi alle smancerie salate del brulichio liquido.
E il mare? Non è mai soddisfatto. Non si è scelto la porzione di scoglio su cui infrangersi, semplicemente le onde si sono lasciate trasportare da altre onde e per caso si sono trovate faccia a faccia con quella costa, nella moltitudine di sassi e massi su cui lavorare, incessantemente giorno e notte, con perizia, finché morte non li separi.

Ho visto la tua ombra avvicinarsi e sedersi a pochi passi dietro di me. La spiaggia non era lo scenario che meglio si adattava alla tua persona: davi l’idea di stare sempre scomodo, di non sapere come sdraiarti e lasciarti andare sulla sabbia. La tua figura cercava vette che non trovava, cercava burroni, neve e stelle alpine. Non riuscivi a rassegnarti a questa distesa di azzurro che incede e si ritrae, spianando ogni fervore umano.

Anche ora, rannicchiato sullo scoglio, dai l’idea di essere un pesce fuor d’acqua. Anzi, uno stambecco che ha saggiato il mare con la punta dello zoccolo senza gradimento, e ora si stringe nella sua solitudine su di un masso sul quale non può stagliarsi, e parla alla sua ombra.

-          Secondo te ha ragione il mare? O la roccia? – mi hai chiesto la voce che quasi strideva per contrastare il vento.
-          Secondo me non c’è giustizia né obiettività in tutto questo – ho detto tenendo lo sguardo fisso a un grande masso sottomarino, una gigantesca e maestosa pietra ricoperta di alghe brune, incastonata da una moltitudine di altri piccoli detriti che brillavano sott’acqua come perle.  Vorrei abitarci dentro ho pensato. Tutto quello che ha a che fare con lo scenario sottomarino mi ha sempre ispirato una segreta e preziosa aurea di regalità e oscura magnificenza.
L’acqua in superficie danzava in chiazze di luce e schiuma, tutto il bacino di mare parlava a tonfi e ribollii, e sciacqui e ripensamenti. Il mare non smette mai il suo discorso, accoglie gli spunti degli schizzi e i versi dei risucchi e continua la sua orchestra, scioglie i dubbi nel sale. E le tue domande stupide.

Siamo stati in silenzio, un silenzio che avevamo imparato a creare e che sapeva di realtà. Il nostro ultimo tentativo di stare insieme oltre le divergenze e le smisurate diversità, sospendere ogni parola per preservare quello spazio comune che ci costava tanta fatica, come se il minimo tentativo di comunicare verbalmente avesse contribuito ad allontanarci.

Una realtà silenziosa come la bellezza delle rocce scolpite dall’acqua, dei profondi tagli laterali negli scogli bianchi alla tua sinistra e delle curve barocche che la risacca stava cesellando nelle rocce in basso a destra.

Le onde e gli scogli non stanno mai davvero insieme, si toccano solo perché hanno bisogno le une dell’altro. Si toccano per scoprirsi arginati e levigati. Per abbellirsi e contenersi.

Il fenomeno dell’erosione è fondamentale per mantenere il perfetto equilibrio del suolo terrestre.

-          Questo è un incontro – ha detto uno, - questo è uno scontro – ha detto l’altro, ma le rispettive voci sono state coperte dal rumore di un onda che si infrangeva davanti a noi.  




  

venerdì 13 agosto 2010

Yin e Yang e granita e brioches


Alla mandorla non le piaceva.
Da quando aveva aperto gli occhi quella mattina non aveva pensato quasi ad altro. Il sole bussava con un molle sorriso dalle tapparelle abbassate della camera da letto, un sorriso largo e placido, un abbraccio silenzioso che si insinuava tra le listarelle.
Era vero, si sentiva che si era su un’isola. Il cielo era di un altro colore, più omogeneo che nel resto d’Italia. Più sicuro. Tutta la natura in generale le sembrava in qualche modo più spavalda, più indolente. Il giorno prima nel tragitto che l’avrebbe portata ad Avola aveva visto dal finestrino del taxi piante di fichi d’India crescere ovunque grasse e ovali, la terra bruciare al calore del tramonto, rosolando rossa e viva.
Aveva aperto gli occhi e era stata per qualche tempo sdraiata a pancia in su nell’alto letto di legno pesante, inspirando lievemente quell’aria tiepida del risveglio.
Iniziando a viere con parsimonia.
 Si sentiva fluttuare nella penombra, intravedeva le forme spigolose dei mobili scuri emergere dagli angoli bui della stanza.
Tutto esisteva imponente e indifferente, molto più di quanto lei stessa si sentisse esistere.
Aveva pensato a te, giusto un attimo. Lo sguardo fisso al rosone in bassorilievo al centro del soffitto, aveva passato mentalmente in rassegna un catalogo di percezioni abbinate alla tua persona: il tono di voce, la trasparenza degli occhi, l’impressione della tua mano che si sistema i capelli dietro l’orecchio. I tuoi no, i tuoi sorrisi di spalle.
Si era girata su un fianco e aveva ripreso a pensare alle granite. Con un piccolo scatto era scesa dal letto e si era diretta ai servizi. Si era tolta la camicia da notte leggera e si era infilata il costume su per la pelle sudaticcia. Le mutandine avevano fatto attrito sulle cosce appena sopra le ginocchia. Si era guardata allo specchio, aveva alzato il mento e poi l’aveva subito abbassato un pochino, girando la testa a destra e a sinistra. Aveva inumidito la frangia, ci aveva applicato una noce di schiuma e poi aveva passato più volte il pettine per allisciarla e sistemarla in modo che le cadesse morbida ai lati della fronte. Aveva raccolto i capelli sulla nuca in una treccia morbida che finiva in un boccolo.

Iniziando a vivere con parsimonia.

Era scesa nella strada bianca di luce, costeggiata da bianche case e leggere, senza pretese. Ogni cosa ha il tetto basso qui, aveva pensato. Tetti piani che spianano l’orizzonte e aprono la vista, tetti che non conoscono la paura di guardare oltre.
Perché oltre c’è solo il mare.
Era entrata nella pasticceria dai tavoli rosa e verdi. Aveva notato anche quella il giorno precedente. Il taxi si era fermato al semaforo davanti alla vetrina, e lei aveva osservato in un potente accesso di acquolina le enormi fette di torte gelato viennesi che campeggiavano ordinate in diagonali dietro i vetri spessi e appannati dei frigoriferi. C’era qualcosa di diabolico nella loro perfezione. Marrone bianco marrone, in parti esattamente uguali in ogni fetta, identica ciliegine caramellata in cima. Di cose di questo tipo era fatta la casa della strega di Hansel e Gretel.

Era l’una e dentro il locale era deserto e soffocante al tempo stesso.
Lui passava lo strofinaccio sul bancone già lucido.
Non le chiese prego cosa desidera, ma quando la guardò le parve che tutta la gentilezza del mondo si fosse riversata in quegli occhi a spicchio che si chiudevano umidi e nocciola vicino al naso per aprirsi in un ventaglio bianchissimo verso l’esterno del viso.
-          Mandorla, pistacchio, caffè, cioccolato, limone … e le brioches sono queste – prese una grossa ciambella dorata, sulla cui sommità si intrecciava un filo di crema gialla, e le diede le spalle per infornarla.
Bello.
-          Mmm … mandorla – sorrisi – anzi no, pistacchio. –
Sorrisi. – te ne do un po’ alla mandorla in un bicchiere, così la assaggi –  si girò di nuovo – i bicchieri di vetro li ho tutti fuori, ti spiace se ne uso uno di plastica? –

 Alla mandorla non le piaceva.
  Sorbì la sua prima granita e brioches seduta a un tavolino nella piccola piazza bianca dai tetti bassi, nel mezzo della quale possenti leoni in pietra si abbeveravano ad una fontana vuota.

Secondo i principi dello yin e dello yang, c’è una misteriosa commistione di poli opposti che permea il tutto, e gli opposti per eccellenza sono il mascolino e il femminile, ai quali vengono attribuiti qualità contrarie e complementari.
Il femminile è freddo, umido e  molle come una granita siciliana.
Il mascolino è caldo, secco e pieno come la brioches appena tolta dal forno.
Questi due principi si rincorrono eternamente, presupponendosi a vicenda, susseguendosi e creandosi l’un l’altro nella loro necessaria ripetizione, come onde.

Perché oltre c’è sole il mare.

Sarebbe tornata da lui la sera stessa, lo avrebbe guardato dritto negli occhi, facendosi vicino, gli avrebbe chiesto – ti va di bere qualcosa? ti fa di fare due passi?
Una notte piccola, svanita, li avrebbe stretti sempre più insieme. Un vicolo, se vuoi, il lasciarsi andare.

Cos’ha da perdere? Il ritmo non si perde mai, anche a volerlo.
Iniziando a vivere con parsimonia.

Le ore erano volate in un’impudente e spietata leggerezza, si erano sgretolate come stelle di sabbia. A mezzanotte decise che avrebbe provato un altro gusto, fragola forse, con sopra la panna, tanto le brioches erano uguali ovunque, come gli uomini, e sarebbe andata a dormire.
In un’altra pasticceria.
Yin è nascondersi.

mercoledì 11 agosto 2010

I bosoni di Higgs e la prova costume

Gli cammino incontro e non voglio guardarlo, anche se so che M. lo sta facendo. 
L'unica cosa che sento, mentre avanzo sul vialetto che porta al cancello, è l'interno coscia che sfrega, una gamba contro l'altra, con un ritmo regolare, un fastidio regolare, una regolare rimembranza del mio essere fatta di carne. L'altra sera dopo la doccia ho dovuto metterci il borotalco, sul mio interno coscia. seduta a gambe divaricare sul bordo del letto, l'asciugamano stretto a turbante sul capo, china su me stessa e raggomitolata come una foglia secca. così ingarbugliata, ho preso fra le dita questa me morbida e sconosciuta, triangoli di pelle chiara venati da piccoli solchi di un delicato rosa confetto. Li tenevo delicatamente tra pollice e indice, e la temperatura dei polpastrelli si è piacevolmente uniformata a quella delle cosce. Ho schiacciato un fra le dita, lievemente, a far strabordare un poco la carne. un poco. quel tanto che viene fuori dalle dita, quel tanto che riesci a tirare. Con dolcezza.
Tempo fa l’avrei chiamata ciccia. Tempo fa, non troppo tempo fa – quella distanza che sorride con grazia ai tuoi anni appena fatti – non avrei usato misericordia, nei confronti delle mie pallide ridenti collinette distese sugli adduttori, che si sfregano e si arrossano per il sudore nelle giornate di caldo.

Secondo quello che in fisica viene chiamato modello standard, non è giustificato che gli atomi abbiano massa. Non è plausibile che io sia qui e ora questo corpo, che il corpo che  io sono stia avanzando mollemente sulla ghiaia diretto verso la strada, questo insieme di viscere e liquidi insaccati che proprio ieri ho tenuto infarinato fra le dita come un piccolo panetto di marzapane tiepido.

Non è plausibile se non in relazione, forse, al quadro d’insieme.

Mi avvicino tenendo la testa girata di lato. Un merlo sta beccando in una pozza d’acqua. 
Mi muovo in un latte condensato che inzuppa l’aria, vinco resistenze di caramello per arrivare fino al riflesso di occhi bassi nello specchietto retrovisore. La fiancata grigia dell’auto splende laminata, in un tempo infinito apro la portiera e mi lascio cadere sul sedile, la superficie ruvida mi punge le gambe lasciate scoperte dalla gonna venuta su.
Dentro, solo caldo.

-          Partiamo? – gli chiedo sorridendo più o meno quanto è dovuto.
I polsi appoggiati al volante, scuote le mani, quelle mani nerborute e secche, dita da vecchio con grosse vene giovani piene di vino paesano. È un gesto consueto, un vibrare interno che si canalizza alle estremità. Si riempie di fiato e invece di parlare trema, gonfiando la pelle attorno alle labbra strizzate.  Poi si spegne, finisce la scossa e ricomincia.
questa volta da sotto gli occhiali da sole da donna spuntano lacrime, mentre i brillantini continuano a splendere ai bordi delle lenti.

È così magro che mi fa sentire a stomaco vuoto.

Affinchè la massa delle particelle venga giustificata, è necessario che queste vengano relazionate secondo dei valori comuni.

-          Cosa devi comprare? – dice senza modulare la voce, passandosi un dito adunco sotto l’occhiale.

Nel negozio prendo con garbo i costumi dalle grucce, tasto la stoffa, medito sulla quantità di paillettes. Conto le macchie dei leopardati, tendo i triangoli dei bichini. Lui mi sta davanti e regge in punta di dita gli appendini, se li porta davanti al petto e ride.

Arriva il momento di smettere di gingillarsi, di guardare dritto in faccia la propria nudità. Mentre mi dirigo al fondo del locale i pannelli che dividono le grucce dicono seconda, terza, quarta. Dicono 30% di sconto, ribassi al 70%. La commessa mi avverte che le taglie vestono piccole; le casse ad alto volume rimbombano tonfi e suoni striduli tagliati da una voce metallica molto acuta. Una donna entra in un camerino seguita da una ragazza più giovane.

Sono i valori comuni che permettono che venga identificata la massa delle particelle sub atomiche. In base all’interazione della particella con il valore, queste si differenziano e si costituiscono in quanto tali.

Senza di te, io non esito.    

Purtroppo non esisto nemmeno senza di te commessa, che mi apostrofi mentre scosto la tenda – non potete entrare in due.
-          Non è il mio ragazzo – rispondo al viso dal naso adunco, un becco che ruba lo spazio alla piccola bocca e ai minuscoli occhi stretti e schiacciati dietro una spessa montatura.
-          Fa lo stesso – dice con un’alzata di spalle – non potete entrare e basta. C’è un negozio della Tim proprio qui accanto … - aggiunge guardando lui, con la stessa espressione da automa.

Sono nel camerino, l’aria è così fredda che ho le mani e i piedi più gelati del solito e l’ultima cosa di cui avrei voglia è svestirmi. Ma tant’è. Appena la commessa se ne va, la testa di M. fa capolino dalla tenda argentata. Sorride, la pelle del viso si muove su più strati concentrici, fino ad arrivare alle borse sotto gli occhi che magicamente si dipanano sotto la luce violenta del neon, e gli occhi, fino a qualche momento fa vuoti e neri come due palle da bowling, diventano due allegri rigagnoli di guizzante acqua verde scuro.

-          Io sto qui e te li passo, ok? –
Ok. E lentamente eccomi, a tutto tondo le cosce, i polpacci e la pancia, una Venere di Willendorf post moderna con lo smalto fucsia alle unghie dei piedi. Costume bianco, rotolini sul fianco. – io non me la provo la quarta -   
-          E che problema c’è, sei fantastica –

Senza di me, non esisti.       

Abbiamo bisogno di stare tutti, io e te e ogni cosa, in un flusso magmatico di sorrisi e lacrime e riflessi. Ce ne stiamo immersi in questa melassa che scorre, un vento all’ennesima potenza che taglia i contenuti e sfoca le immagini. Un vortice di insipienza, tempo e spazio uniti in un vertiginoso amplesso e occorre stare aggrappati con le unghie e con i denti per non svanire.

Per non svanire, siamo qui insieme  adesso.

“Mi piace il mio corpo quando è con il tuo”, recita una poesia di Tagore.
È qualcosa di più. È qualcosa che ha a che fare con il modo in cui mi passi i vestiti, con la grazia del tuo sguardo che rimbalza nello specchio e mi avvolge.
Ha a che fare con le tue lacrime, con la bolla d’inerzia che ti tiene fermo ancorato alla ricerca di un luogo che non c’è più.

Il campo di Higgs prevede dei condensamenti, dei raggrumi di campo che ne testimoniano l’esistenza.
È questo che c’è, quando sto con te. Un’increspatura di quello che tutti danno per scontato. Una pausa.  Una testimonianza, il solco sulla sabbia, la soglia di casa.

We are all in this togheter now.

Ma la massa ce la facciamo dare da persone che sappiamo avere occhi per vederci e orecchie per sentirci e mani per toccarci.