L’edera ha una sua particolare succulenza, un rigoglioso permanere di riccioli spessi e foglie ricurve. Se ne sta lì, in un’abbondanza apparentemente immobile sopra il brulichio. Una folta e gonfia scacchiera appena pelosa e levigata, sul muro del balcone circolare che si sporge come una piccola pancia di pietra bianca su un mondo deserto, finito oltre un tetto basso e una curva tinteggiata di giallo. Da dietro la finestra il terrazzo è solo uno sprazzo di geometrie verde scuro in cui si spandono rigagnoli verde chiaro, vene strette attorno alle grate della ringhiera dove la ruggine è appena visibile, carne nera e pruriginosa sotto scaglie di vernice azzurra. Nervi di rami con piccoli gomiti appuntiti si fermano in un’apnea dorata di luce totale, dopo aver respirato tutta notte in millesimali spostamenti sul cemento, estendendosi in ogni direzione. Forze di steli che cingono le gambe delle sedie e del tavolo, con rinnovata linfa che le gonfia dal basso, un basso così lontano che non si vede nemmeno sporgendosi più che si può..
Le mani si sono mosse da sé, la maniglia, la spinta sullo stipite, aggrapparsi al bordo ruvido e guardare intorno, un cielo generoso ovunque. Un chiarore febbricitante si stende sul terrazzo, sale in mezzo alle gambe e rende i movimenti puntuali. Stringersi la maglia intorno al punto vita, lasciare cadere le braccia. Fare un passo, in un freddo che rimpicciolisce. Forzare gli zigomi attorno alle orbite, un tenere molle e tenace, della consistenza di labbra poggiate.
Nemmeno un’ombra qui fuori, nessuna cosa nera. Solo seno e fianchi e edera. Le restanti linee dei corpi sfumano in un inspiro di costole bianche, in una vertigine che dissolve, dalla pianta dei piedi alle narici.
Dimentico.
Nel vuoto sotto, un ricciolo di vento sfoca i bordi, nell’orizzonte di aria caduta.
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