venerdì 20 agosto 2010

L'erosione marina e le tue domande stupide

-          Perché  gli scrittori si suicidano? - sguardo nero attraverso ciglia corte e dritte. Mi sono voltata,  stupita – è una domanda stupida. Stupida e anche … non so, vergognosa – il mare in sottofondo frusciava potente, mangiandosi gli spazi di silenzio tra le rocce. Occhi di granchio lucidi e salmastri facevano capolino dai buchi e dalle insenature, in un nascosto compito di vigilanza marina.  
-          Oggi ho voglia di fare domande stupide –
I paguri espongono le loro case al sole denso del mezzogiorno su uno scoglio chiaro e piatto. Una messa senza repliche, la lenta, inesorabile avanzata di una conchiglia sul dorso di minuscole zampe arancioni. Una conchiglia da niente, povera nel suo biancore a spirale. Una conchiglia da poco. Che è parte integrante di quello che sei, che è ciò stesso che sei.
La tua casa. La tua vergogna. Le tue domande stupide.
-          Come le domande che fanno i bambini, quelle che ti danno l’impressione di determinare per la prima volta la natura delle cose –
-          Capisco –  ho slegato il costume dietro il collo per legarlo sulla schiena. I lacci erano umidi e continuavano a scapparmi fra le dita, il movimento non era dei più facili, occorreva inarcare le lombari e senza vedere fare un nodo appena sotto le scapole, con le spalle e i gomiti tirati all’ingiù, i polsi torti e tesi per non farsi scappare quei rotolini di stoffa sottili.  
 Tu te ne stavi seduto sul tuo asciugamano rosso, cingendo con le braccia le ginocchia vicine al petto, immobile e torvo. – aiutami – ti ho detto. Senza aprire bocca mi sei venuto dietro, vicino ai fianchi scoperti e vulnerabili, e hai legato i lacci, continuando a indicare col mento il davanti del reggiseno che scendeva lasciando scoperta una mezzaluna d’areola teneramente rosea.
Mi sono terribilmente infastidita. Non facevi altro che infastidirmi, nelle ultime ore.
Le tue domande stupide. Non mi importa nulla era la frase che ti avevo ripetuto di più in quei giorni.
Mi sono alzata e sono andata senza voltarmi a sedermi sulla punta di uno scoglio aguzzo, martoriato dagli schizzi. Una sorta di gigante spugna solida e nera, con così tanti buchi da non saper dire se la superficie fosse più vuota o più piena. Il grande becco adunco di un gabbiano chino per bersi acqua salata.

Erosa. Il mare nel suo sensuale andirivieni si porta via la roccia. A forza di carezze, moine e strusciamenti questo grande amante ti consuma. Una miriade di piccoli microschizzi fanno la corte per mesi, anni all’imponente pancia di minerali sulla quale si trovano a cozzare e guarda un po’? dopo qualche tempo la roccia è diminuita, si è smussata e rimpicciolita, ha chinato il capo adattandosi alle smancerie salate del brulichio liquido.
E il mare? Non è mai soddisfatto. Non si è scelto la porzione di scoglio su cui infrangersi, semplicemente le onde si sono lasciate trasportare da altre onde e per caso si sono trovate faccia a faccia con quella costa, nella moltitudine di sassi e massi su cui lavorare, incessantemente giorno e notte, con perizia, finché morte non li separi.

Ho visto la tua ombra avvicinarsi e sedersi a pochi passi dietro di me. La spiaggia non era lo scenario che meglio si adattava alla tua persona: davi l’idea di stare sempre scomodo, di non sapere come sdraiarti e lasciarti andare sulla sabbia. La tua figura cercava vette che non trovava, cercava burroni, neve e stelle alpine. Non riuscivi a rassegnarti a questa distesa di azzurro che incede e si ritrae, spianando ogni fervore umano.

Anche ora, rannicchiato sullo scoglio, dai l’idea di essere un pesce fuor d’acqua. Anzi, uno stambecco che ha saggiato il mare con la punta dello zoccolo senza gradimento, e ora si stringe nella sua solitudine su di un masso sul quale non può stagliarsi, e parla alla sua ombra.

-          Secondo te ha ragione il mare? O la roccia? – mi hai chiesto la voce che quasi strideva per contrastare il vento.
-          Secondo me non c’è giustizia né obiettività in tutto questo – ho detto tenendo lo sguardo fisso a un grande masso sottomarino, una gigantesca e maestosa pietra ricoperta di alghe brune, incastonata da una moltitudine di altri piccoli detriti che brillavano sott’acqua come perle.  Vorrei abitarci dentro ho pensato. Tutto quello che ha a che fare con lo scenario sottomarino mi ha sempre ispirato una segreta e preziosa aurea di regalità e oscura magnificenza.
L’acqua in superficie danzava in chiazze di luce e schiuma, tutto il bacino di mare parlava a tonfi e ribollii, e sciacqui e ripensamenti. Il mare non smette mai il suo discorso, accoglie gli spunti degli schizzi e i versi dei risucchi e continua la sua orchestra, scioglie i dubbi nel sale. E le tue domande stupide.

Siamo stati in silenzio, un silenzio che avevamo imparato a creare e che sapeva di realtà. Il nostro ultimo tentativo di stare insieme oltre le divergenze e le smisurate diversità, sospendere ogni parola per preservare quello spazio comune che ci costava tanta fatica, come se il minimo tentativo di comunicare verbalmente avesse contribuito ad allontanarci.

Una realtà silenziosa come la bellezza delle rocce scolpite dall’acqua, dei profondi tagli laterali negli scogli bianchi alla tua sinistra e delle curve barocche che la risacca stava cesellando nelle rocce in basso a destra.

Le onde e gli scogli non stanno mai davvero insieme, si toccano solo perché hanno bisogno le une dell’altro. Si toccano per scoprirsi arginati e levigati. Per abbellirsi e contenersi.

Il fenomeno dell’erosione è fondamentale per mantenere il perfetto equilibrio del suolo terrestre.

-          Questo è un incontro – ha detto uno, - questo è uno scontro – ha detto l’altro, ma le rispettive voci sono state coperte dal rumore di un onda che si infrangeva davanti a noi.  




  

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