mercoledì 11 agosto 2010

I bosoni di Higgs e la prova costume

Gli cammino incontro e non voglio guardarlo, anche se so che M. lo sta facendo. 
L'unica cosa che sento, mentre avanzo sul vialetto che porta al cancello, è l'interno coscia che sfrega, una gamba contro l'altra, con un ritmo regolare, un fastidio regolare, una regolare rimembranza del mio essere fatta di carne. L'altra sera dopo la doccia ho dovuto metterci il borotalco, sul mio interno coscia. seduta a gambe divaricare sul bordo del letto, l'asciugamano stretto a turbante sul capo, china su me stessa e raggomitolata come una foglia secca. così ingarbugliata, ho preso fra le dita questa me morbida e sconosciuta, triangoli di pelle chiara venati da piccoli solchi di un delicato rosa confetto. Li tenevo delicatamente tra pollice e indice, e la temperatura dei polpastrelli si è piacevolmente uniformata a quella delle cosce. Ho schiacciato un fra le dita, lievemente, a far strabordare un poco la carne. un poco. quel tanto che viene fuori dalle dita, quel tanto che riesci a tirare. Con dolcezza.
Tempo fa l’avrei chiamata ciccia. Tempo fa, non troppo tempo fa – quella distanza che sorride con grazia ai tuoi anni appena fatti – non avrei usato misericordia, nei confronti delle mie pallide ridenti collinette distese sugli adduttori, che si sfregano e si arrossano per il sudore nelle giornate di caldo.

Secondo quello che in fisica viene chiamato modello standard, non è giustificato che gli atomi abbiano massa. Non è plausibile che io sia qui e ora questo corpo, che il corpo che  io sono stia avanzando mollemente sulla ghiaia diretto verso la strada, questo insieme di viscere e liquidi insaccati che proprio ieri ho tenuto infarinato fra le dita come un piccolo panetto di marzapane tiepido.

Non è plausibile se non in relazione, forse, al quadro d’insieme.

Mi avvicino tenendo la testa girata di lato. Un merlo sta beccando in una pozza d’acqua. 
Mi muovo in un latte condensato che inzuppa l’aria, vinco resistenze di caramello per arrivare fino al riflesso di occhi bassi nello specchietto retrovisore. La fiancata grigia dell’auto splende laminata, in un tempo infinito apro la portiera e mi lascio cadere sul sedile, la superficie ruvida mi punge le gambe lasciate scoperte dalla gonna venuta su.
Dentro, solo caldo.

-          Partiamo? – gli chiedo sorridendo più o meno quanto è dovuto.
I polsi appoggiati al volante, scuote le mani, quelle mani nerborute e secche, dita da vecchio con grosse vene giovani piene di vino paesano. È un gesto consueto, un vibrare interno che si canalizza alle estremità. Si riempie di fiato e invece di parlare trema, gonfiando la pelle attorno alle labbra strizzate.  Poi si spegne, finisce la scossa e ricomincia.
questa volta da sotto gli occhiali da sole da donna spuntano lacrime, mentre i brillantini continuano a splendere ai bordi delle lenti.

È così magro che mi fa sentire a stomaco vuoto.

Affinchè la massa delle particelle venga giustificata, è necessario che queste vengano relazionate secondo dei valori comuni.

-          Cosa devi comprare? – dice senza modulare la voce, passandosi un dito adunco sotto l’occhiale.

Nel negozio prendo con garbo i costumi dalle grucce, tasto la stoffa, medito sulla quantità di paillettes. Conto le macchie dei leopardati, tendo i triangoli dei bichini. Lui mi sta davanti e regge in punta di dita gli appendini, se li porta davanti al petto e ride.

Arriva il momento di smettere di gingillarsi, di guardare dritto in faccia la propria nudità. Mentre mi dirigo al fondo del locale i pannelli che dividono le grucce dicono seconda, terza, quarta. Dicono 30% di sconto, ribassi al 70%. La commessa mi avverte che le taglie vestono piccole; le casse ad alto volume rimbombano tonfi e suoni striduli tagliati da una voce metallica molto acuta. Una donna entra in un camerino seguita da una ragazza più giovane.

Sono i valori comuni che permettono che venga identificata la massa delle particelle sub atomiche. In base all’interazione della particella con il valore, queste si differenziano e si costituiscono in quanto tali.

Senza di te, io non esito.    

Purtroppo non esisto nemmeno senza di te commessa, che mi apostrofi mentre scosto la tenda – non potete entrare in due.
-          Non è il mio ragazzo – rispondo al viso dal naso adunco, un becco che ruba lo spazio alla piccola bocca e ai minuscoli occhi stretti e schiacciati dietro una spessa montatura.
-          Fa lo stesso – dice con un’alzata di spalle – non potete entrare e basta. C’è un negozio della Tim proprio qui accanto … - aggiunge guardando lui, con la stessa espressione da automa.

Sono nel camerino, l’aria è così fredda che ho le mani e i piedi più gelati del solito e l’ultima cosa di cui avrei voglia è svestirmi. Ma tant’è. Appena la commessa se ne va, la testa di M. fa capolino dalla tenda argentata. Sorride, la pelle del viso si muove su più strati concentrici, fino ad arrivare alle borse sotto gli occhi che magicamente si dipanano sotto la luce violenta del neon, e gli occhi, fino a qualche momento fa vuoti e neri come due palle da bowling, diventano due allegri rigagnoli di guizzante acqua verde scuro.

-          Io sto qui e te li passo, ok? –
Ok. E lentamente eccomi, a tutto tondo le cosce, i polpacci e la pancia, una Venere di Willendorf post moderna con lo smalto fucsia alle unghie dei piedi. Costume bianco, rotolini sul fianco. – io non me la provo la quarta -   
-          E che problema c’è, sei fantastica –

Senza di me, non esisti.       

Abbiamo bisogno di stare tutti, io e te e ogni cosa, in un flusso magmatico di sorrisi e lacrime e riflessi. Ce ne stiamo immersi in questa melassa che scorre, un vento all’ennesima potenza che taglia i contenuti e sfoca le immagini. Un vortice di insipienza, tempo e spazio uniti in un vertiginoso amplesso e occorre stare aggrappati con le unghie e con i denti per non svanire.

Per non svanire, siamo qui insieme  adesso.

“Mi piace il mio corpo quando è con il tuo”, recita una poesia di Tagore.
È qualcosa di più. È qualcosa che ha a che fare con il modo in cui mi passi i vestiti, con la grazia del tuo sguardo che rimbalza nello specchio e mi avvolge.
Ha a che fare con le tue lacrime, con la bolla d’inerzia che ti tiene fermo ancorato alla ricerca di un luogo che non c’è più.

Il campo di Higgs prevede dei condensamenti, dei raggrumi di campo che ne testimoniano l’esistenza.
È questo che c’è, quando sto con te. Un’increspatura di quello che tutti danno per scontato. Una pausa.  Una testimonianza, il solco sulla sabbia, la soglia di casa.

We are all in this togheter now.

Ma la massa ce la facciamo dare da persone che sappiamo avere occhi per vederci e orecchie per sentirci e mani per toccarci. 

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